venerdì 7 dicembre 2012

Il mio Natale. (si, è gelosia la mia…)


I bastardi non hanno tradizioni.
Volendo, posseggono brandelli di identità. Ma, proprio perché in qualche modo laceri, non esistono appieno.
Allora può capitare che, pur di sentirsi vivi, ci si aggrappi a quelle altrui. Non ti appartengono, ma te le fai piacere. E appartenere.
Anche se il discorso viaggerà in quella direzione, perché una direzione doveva prenderla in fin dei conti, non si tratta del solito e zuccheroso piagnucolìo pre natalizio.
La festa, le festività, sono ornamenti laterali. Sono mezzi, anzi cornici. Ma nulla hanno a che vedere col pensiero che mi frusta in questo momento.
Nonostante gli sforzi, non ho ricordi vividi delle feste natalizie in famiglia. Tolto qualche episodio relativamente recente.
Può darsi che sia dovuto a una sorta di rimozione, per via delle vicende della mia famiglia. Non credo. Senza chissà quale vanto di capacità di astrazione, ritengo di essere in grado, oramai, di scindere il ricordo da quel che in età adolescenziale mi provocava qualche, comprensibile, fastidio.
No.
Non c’entra nulla.
In realtà, è che, a causa di impegni professionali, da un lato, e menefreghismo assoluto, dall’altro, il Natale, quello tradizionale classico radicato nell’immaginario collettivo, e di fatto, anche nella realtà concreta, a casa mia, non s’è mai festeggiato.
A parte, come dicevo, nel passato recente che mi riporta i relativi ricordi di cui sopra e che vedremo avanti.
Così, a mente fredda, ripensandoci ora, sono dell’idea che mio padre (soprattutto, ma anche mia madre alla fine) non avesse una propria idea di cosa è la cosiddetta “famiglia” dal punto di vista del padre (capofamiglia, se vogliamo, nell’accezione legale della questione). Non è questa una colpa che gli imputo. Non sarebbe corretto.
Da quello che il mito racconta, alla tenera età di 13 anni abbandonò la famiglia (non stupisca la oggi considerata verde età, stiamo parlando della metà degli anni Cinquanta) nel natìo borgo in Sardegna, probabilmente, parlo per ipotesi perché il mito si è tramandato oralmente, per cui è possibile l’aggiunta o la sottrazione di fasti o sconfitte,  per navigare alla volta del continente in cerca di un futuro migliore rispetto alla prospettiva della miniera (si parla di Sulcis-Iglesiente).
Tre sesti di “fratellanza” si insediarono a Genova e, tolti i due che sono rimasti in Sardegna, mio padre giunse fino a Torino.
Mi affascina questo raccontare con il fare dello storico (sorrido).
Andiamo avanti.
Anzi, stringiamo che sennò mi perdo nei rivoli.
Giungiamo al dunque, tralasciando particolari anche gustosi (quando mi capita di leggerne vorrei non finissero, ma è divertente lasciare un alone di mistero…..altra risata gustosa…).
Insomma, dicevo a parte recenti ricordi, non ho memoria natalizia.
La mia tradizione del Natale è legata a una famiglia che, e spero di non risultare offensivo, non ha niente a che fare con me.
La cosa particolare, strana se vogliamo, ma che ritengo molto bella, è che invece mi attrae come se fosse la mia vera famiglia.
Sinceramente non saprei dire da quanti anni va avanti questa “nuova” tradizione, di fatto l’ho assunta come la “mia tradizione”.
Ok, sembra una leccata e me ne dolgo, perché non è quello l’intento.
In certa maniera, sono stato “adottato” dalla famiglia del mio migliore amico.
Loro sono campani, lui, il padre, Matteo, se non mi sbaglio è d’origine pugliese, Foggia, se non faccio confusione; lei, la mamma, Teresa, è campana. Anzi, campanissima!
Della provincia di Salerno.
{scrivo sotto effetto di wodka e non ricordo il nome del paese}
Ma veniamo al dunque,
Cosa succede?
Succede la cosa più normale, e per questo eccezionale in una società soggiogata dall’individualismo più feroce che ogni altro scampolo di storia possa ricordare, non si chiede un cazzo.
Si, non esiste traccia dell’odioso “do ut des” che verrebbe anche (sigh!) spontaneo in questa merda assoluta che ricopre le nostre facce.
Non esiste imposizione. Non c’è traccia di richiesta.
C’è solo offerta.
Nella maniera, e qui mi permetto di sottolineare il caratttere, se vogliamo anche spontaneista ma sincero, del cuore proletario.
Se volessimo ricercare proverbialità, potremmo citare il “se si mangia in due si mangia in quattro”.
Il dono, insomma.
Una cosa che nessun  manuale e nessuna regola può determinare.
Loro mi accolgono come un membro della famiglia, magari non è esattamente così (lo capisco, ci mancherebbe). Ma la semplicità e la spontaneità fanno pensare a questo.
E io trascorro i più bei “natali” della mia vita.
Tutto questo, che non è una scusa ma un riconoscimento, mi serve a chiedere scusa per l’anno passato in cui ho tradito.
Dovrò sforzarmi di trovare una maniera per farmi perdonare.
Perché sono un bastardo.
Non ho tradizione né identità, ma è questa la mia famiglia.

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