martedì 17 agosto 2010

The hope of revolution (part 2 of 2)

«Lucifero dette il segnale della battaglia e vi si gettò per primo. Ci avventammo contro il nemico convinti di distruggerlo immediatamente e conquistare al primo assalto la sacra fortezza. I soldati del Dio geloso, meno focosi ma altrettanto fermi dei nostri, si rivelarono instancabili. L'arcangelo Michele li dirigeva con la calma e la decisione proprie di un cuore generoso. Tre volte tentammo di forzare i loro schieramenti che per tre volte opposero ai nostri petti corazzati le punte fiammeggianti delle loro lance pronte a trafiggere le corazze più resistenti. I corpi gloriosi cadevano a migliaia. Finalmente la nostra ala destra sfondò l'ala sinistra del nemico e si videro le terga dei Principati, Potenze, Virtù, Troni e Dominazioni che fuggivano flagellandosi con i calcagni, mentre gli angeli del terzo coro svolazzando smarriti sulle loro teste li ricoprivano d'una pioggia di piume e di sangue. Li incalzammo fra i rottami e le armi ammucchiate affrettando la loro agile fuga...Un uragano di grida ci sorprende ad un tratto.
Si gonfia e si accosta, carico di un vocìo disperato e di trionfali clamori: l'ala destra del nemico, gli arcangeli giganti dell'Altissimo, piombati contro il nostro fianco sinistro, l'hanno spezzato. Dobbiamo abbandonare i fuggiaschi e correre in aiuto alle truppe sbandate. Il nostro principe vi si dirige al volo e ridà fiato alla battaglia. Ma l'ala sinistra del nemico, di cui non avevamo completato la rotta, non più oppressa da frecce e lance riprende coraggio, si volta e nuovamente ci fronteggia.
La notte sospese l'incerta battaglia. Mentre il campo riposava, col favore dell'ombra, nell'aria tranquilla attraversata a tratti dai lamenti dei feriti, Lucifero apprestava la seconda giornata. Prima dell'alba, le trombe suonarono la sveglia. I nostri guerrieri sorpresero il nemico durante l'ora della preghiera e lo dispersero facendone prolungato scempio. Quando non vi furono più che fuggiaschi o caduti, l'arcangelo Michele, da solo con qualche compagno dalle quattro ali fiammeggianti, resisteva ancora all'assalto d'un esercito illimitato. Arretravano seguitando ad opporci i loro petti e Michele continuava ad esibire un volto impassibile. Il sole raggiungeva un terzo del suo percorso, quando prendemmo a scalare la montagna del Signore. La salita era dura, le fronti grondavano sudore e una luce infuocata ci accecava. Carichi di ferro com'eravamo, le nostre piume non bastavano a sollevarci, ma la speranza ci reggeva sulle sue ali. Il bel Serafino, la mano irradiante sempre più alta, ci indicava la via. Scalammo per l'intera giornata il monte altero che la sera ammantò d'azzurro, di rosa e opale. L'esercito di stelle apparse sul firmamento pareva il riflesso delle nostre armi. Un silenzio infinito si stendeva sopra di noi. Salivamo ebbri di speranza.
All'improvviso sprizzano lampi nel cielo oscurato. Si ode il rombare del tuono e dalla vetta del monte avvolta nelle nubi ricade il fuoco dei cieli. Caschi e corazze grondano fiamme e gli scudi si spezzano sotto le frecce scagliate da mani invisibili. Lucifero serbava intatta la sua fierezza nell'uragano di fuoco. La folgore lo colpiva più volte ma sempre invano. Eretto, continuava a sfidare il nemico, finchè la folgore scuotendo la montagna ci precipitò in basso alla rinfusa insieme a enormi blocchi di zaffiro e rubino, e rotolammo svenuti e inerti per uno spazio di tempo che nessuno poté misurare.
Mi svegliai nelle tenebre fra i lamenti. Quando i miei occhi si furono abituati all'ombra fitta, mi scorsi intorno i compagni d'arme giacenti a migliaia sul terreno sulfureo su cui scorrevano lividi riflessi. Non scorgevo che crateri fumanti, solfatare, paludi appestate. Montagne di ghiaccio e mari di tenebra racchiudevano l'orizzonte. Un cielo di bronzo ci pesava sulla fronte. L'orrore del luogo era tale che piangemmo accovacciati, i gomiti sulle ginocchia e i pugni stretti contro il viso. Ad un tratto, alzando gli occhi, scorsi il Serafino, ritto dinanzi a me come una torre. Sul suo splendore primitivo il dolore gettava quasi un cupo e splendido ornamento.
"Compagni" disse "dobbiamo rallegrarci perchè siamo liberi dalla servitù celeste e negli inferi la libertà vale di più che la schiavitù nei cieli. Non siamo vinti perchè ci resta la volontà di vincere. Per opera nostra ha vacillato il trono del Dio geloso, per opera nostra esso crollerà. Alzatevi compagni e in alto i cuori!".
Al suo comando, sovrapponemmo dunque montagne a montagne, drizzammo sulle vette grandi macchine per scagliare rocce infiammate contro la divina dimora. L'esercito celeste fu preso di sorpresa e dalla sua sede gloriosa partirono gemiti e grida di terrore. Pensavamo già di rientrare vincitori nella nostra patria suprema, ma la montagna del Signore si coronò di saette e la folgore cadendo sulla nostra fortezza la ridusse in polvere.
Dopo quest'ultimo disastro, il Serafino ristette per un poco pensoso, la testa fra le mani. Sollevò poi il volto annerito.
Era divenuto Satana, più grande di Lucifero. Gli angeli fedeli gli si stringevano intorno.
"Amici" disse "non abbiamo ancora vinto, perchè indegni e incapaci di vincere. Rendiamoci conto di quanto ci è mancato. Non si governa la natura, non si acquista la padronanza dell'Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. Dobbiamo scoprire la folgore e a questo ci dobbiamo dedicare senza sosta. Non sarà ora il cieco coraggio (nessuno nel corso di questa giornata ha dimostrato più coraggio di voi) a consegnarci le frecce divine, ma lo studio e la riflessione. Meditiamo dunque in questo luogo tetro nel quale siamo piombati, cercando i motovi segreti delle cose. Osserviamo la natura con inesausto ardore e desiderio di conquista, sforziamoci di penetrarne la grandezza e la piccolezza infinite. Tentiamo di scoprire quando essa è sterile e quando è feconda, com'essa produca il caldo e il freddo, la gioia e il dolore, la vita e la morte, come raccolga e divida i suoi elementi e come produca l'aria trasparente che respiriamo, le rocce di zaffiro e diamante da cui precipitiamo, il fuoco divino che ci ha tinti di nero e il pensiero orgoglioso che agita i nostri spiriti. Lacerati da vaste ferite, bruciati da fiamme di ghiaccio, rendiamo grazie al destino che si è curato di aprirci gli occhi, e rallegriamoci della nostra sorte. Facendo una lunga esperienza della natura, attraverso il dolore, siamo incitati a conoscerla e a domarla.
Quand'essa ci obbedirà saremo diventati Dei. Ma se dovesse celare per sempre i suoi misteri, rifiutarci le armi e conservare il segreto della folgore, dovremo ancora rallegrarci per aver conosciuto il dolore, poichè esso ci rivela sentimenti nuovi, più dolci e preziosi di quelli che si provano nella beatitudine eterna, e c'ispira l'amore e la pietà, sconosciuti ai cieli".
Queste parole del Serafino ci mutarono i cuori aprendoci a nuove speranze. Un desiderio immenso di conoscere ed amare ci colmava il petto.
Frattanto nasceva la terra.»
(Anatole France: La rivolta degli angeli, 1914. Cap. XVIII, pagg. da 103 a 109. Armando Curcio, Milano 1978)

sottofondo consigliato: Franco Battiato, Shock in my town (1998)


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