martedì 27 settembre 2011

Svegliatevi, dormienti.

«[...] Nel matrimonio ebraico all'epoca di Cristo lo sposo si recava in casa della sposa, accompagnato da ancelle rigorosamente vergini. Nella parabola raccontata da Cristo (Matteo 25:1-13) le ancelle sono dieci, di cui cinque savie e cinque stolte. Quelle savie sanno che non sempre gli sposi sono puntuali; e siccome devono far luce con le loro lampade, si sono portate una scorta d'olio. Quelle stolte no, e male gliene incoglierà.
Quando, dopo lungo ritardo, nel cuore della notte, arriverà lo sposo, svegliando le ancelle che nel frattempo avevano ceduto tutte al sonno, quelle savie avranno olio a sufficienza per far luce; le altre l'avranno finito e dovranno correre a comprarne. A questo punto accade uno dei tanti piccoli eventi crudeli di cui sono costellati i Vangeli: le vergini savie seguiranno lo sposo e verranno ammesse al matrimonio; quelle stolte giungeranno in ritardo e troveranno la porta sprangata. Quando chiederanno al Signore di aprire loro, quello risponderà seccamente "Non vi conosco".
Cosa c'entra Dick in tutto questo?Molto. Quando aveva scelto di intitolare il suo romanzo Cantata 140 era evidentemente a Matteo che pensava, per il tramite di Nicolai e Bach. Wachet auf, proclama il coro all'esordio della cantata. Quell'esortazione è evidentemente rivolta ai dormienti del romanzo, gli sleepers. C'è una possibilità: non dovranno restare ibernati per sempre a spese dello stato; potranno tornare alla vita e salvarsi dal nulla cui li ha condannati un'economia per la quale sono inutili.
Il discorso, indubbiamente, è piuttosto moderno per un romanzo concepito tra il 1963 e il 1964, nel bel mezzo del boom economico del dopoguerra: verte sull'inutilità degli esseri umani, di alcuni esseri umani. Prima che il problema della disoccupazione, del surplus di braccia si manifestasse, Dick aveva già ipotizzato una soluzione grottesca e sarcastica: la gente in più che non serve al sistema economico mettiamola in ghiacciaia. Teniamola da parte. Forse ci serviranno un giorno, forse no, però se li mettiamo in cantina non andranno in giro a prostituirsi, drogarsi, rubare, spacciare e chissà quante altre attività illegali. Teniamo desti solo quelli che servono, che lavorano e consumano. Quelli che fanno girare la macchina del capitale. Gli altri, a dormire. Così non dovremo ricorrere a misure estreme e impopolari (eutanasia? Pena di morte?), e ce li saremo comunque tolti dai piedi.
La questione del romanzo a ben vedere è tutta lì: cosa farne di questi uomini e donne in più, che guarda caso sono di colore (non necessariamente neri, anche nelle varie tonalità del marrone fino al caffelatte più sbiadito)? C'è un sistema che si fonda sui dormienti e su altre misure per tenere bassa la sovrappopolazione. I potenti di quel sistema (i George Walt con il loro bordello orbitale, dove si può godere della vera crack in space, oppure il dottor Lurton Sands che ha trasformato i dormienti in miniera d'organi, e d'oro) ovviamente preferiscono, com'è sempre stato, che il sistema sia preservato, così restano potenti. Altri cercano un'alternativa, e tutti li deridono, e forse non sbagliano, perché quando Bruno Mini compare alla fine del romanzo bisogna riconoscere che è un personaggio ridicolo, un inventore da strapazzo ai limiti della ciarlataneria. Ma l'apertura della breccia nello spazio, del passaggio da una Terra sovrappopolata ed esaurita a un'altra-Terra che all'inizio pare vergine e accogliente, ribalta improvvisamente la situazione.
Come nella parabola di Matteo, arriva lo sposo, cioè il regno dei cieli, e i dormienti si sveglieranno; e la voce che annuncia la venuta è quella di uno dei più strambi candidati alla presidenza degli Stati Uniti che mai la letteratura americana abbia concepito: Jim Briskin, un negro baffuto che va in giro con una parrucca rossa, ex-newsclown, quindi un personaggio da Striscia la notizia più che da Casa Bianca. Un uomo semplice e, lo si capisce da tanti episodi del romanzo, sostanzialmente buono.
»

(Brano tratto dalla postfazione, a cura di Umberto Rossi, di "The Crack in the Space", di Philip K. Dick, 1966; pgg. 200-201, Fanucci Editore, Roma 2002)

Sottofondo consigliato: No time, no space; F.Battiato


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