venerdì 31 agosto 2012

Sono stanco.

Sono stanco.

Sono stanco di chi la sa lunga e di chi non la sa abbastanza.
Di chi vede tutto nero e di chi vede tutto rosa.
Delle stesse facce tutti i giorni, alla stessa ora, che fanno sempre la stessa battuta, con la stessa espressione e aspettano la solita risposta.
Sono stanco del tempo, meteorologico e cronologico.
Di alzarmi dal letto alla stessa ora e di rispettare un impegno per ogni minuto della giornata, della settimana, del mese.
Sono stanco delle scarpe. Dei pantaloni. Delle camice, dei pullover, delle giacche.
Sono stanco del denaro.
Della spesa settimanale. Della solita fila di scaffali dove si trovano gli stessi prodotti. Il caffè a destra, la pasta a sinistra, i salumi in fondo al corridoio, la breve fila alla piccola cassa, i soliti saluti.
Sono stanco della tivù e della radio. Dei soliti programmi alla solita ora e con le solite voci e le solite facce.
Sono stanco di internet.
Dei social network, dei blog, di youtube.
Sono stanco di mangiare.
Della solita pastasciutta, della solita bistecca, del solito pomodoro.
Sono stanco di chi pensa di aver capito tutto di me, quando nemmeno io l’ho ancora capito.
Sono stanco di dover sempre fare, dire e apparire come qualcun altro vorrebbe che io fossi. Di lottare anche sulle virgole.
Sono stanco.
Ho bisogno di una vacanza, di staccare la spina, di stare con le persone che voglio anche se so già che non potrò.
Pazienza, non ho nemmeno voglia di pensare a domani.
Sono molto stanco.

giovedì 30 agosto 2012

Memorie




Stesi sul letto, avevano appena fatto l’amore.
Lui con lo sguardo perso nel vuoto in direzione del soffitto, lei con la testa sulla sua pancia.
Gli accarezzò una coscia:
 - A cosa pensi?  gli chiese.
 - A nulla.
Anzi no, non è vero….
Sorrise.
 - …in effetti, pensavo a quanto è strano…
 - Cosa? Disse lei, guardandolo dal basso alzando solo gli occhi.
 - Che quando stai bene non hai pensieri. Quando non hai bisogni, non hai pensieri. E in questo momento, tutto quello di cui ho bisogno è qui con me.
Lei gli baciò la pancia.
 - Allora stiamo qui per sempre.
Lui sorrise e le accarezzò i capelli.

mercoledì 29 agosto 2012

Fingere



Fingere è, forse, l’attività preferita da ognuno di noi. Nessuno escluso.
Tutti esercitiamo questa sorta di “diritto/dovere”, “bisogno/obbligo”. Lo facciamo fin da bambini e ce lo giustifichiamo in ogni maniera.
A scuola, di aver capito la lezione. Sul lavoro, di esser sereni.
Con mamma, papà, fratelli e sorelle. Con chiunque sia più o meno intimo, con chi conosciamo appena.
Persino con noi stessi.
Forse, è l’unica protezione che abbiamo.
Forse, solo così riusciamo a sopportare la realtà.

martedì 28 agosto 2012

Alti


«I due passavano così quelle giornate in vagabondaggi trasognanti; scoprivano inferni che l’amore poi redimeva, rinvenivano paradisi trascurati che quello stesso amore dopo profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano più, ma se ne andavano assorti nelle stanze più isolate, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lì tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l’un l’altro.
Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla; quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: “Sono la tua novizia,” richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro dei desideri corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi, per un sorriso. Si ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire.
Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore.»

lunedì 27 agosto 2012

"Serate fiacche" 2


— Un po’ come oggidì: quando le militanze benpensanti dei “campus” americani riescono con leghe e “campagne” a far togliere i termini inopportuni e sconvenienti come «negro» dai vocabolari della lingua. Aprendo la strada ad abbondantissime revisioni delle “scorrettezze” biasimate anche se inconsapevoli: che cosa fare, adesso, per esempio, di tanta roba nera — la bandiera dei pirati, la camicia dei fascisti, la giacchetta degli arbitri, la borsa dei borsari, il papa dei Gesuiti, la Gazzetta di Guido Piovene, e la pecora, e l’anima, e la magia, la maglia, la messa, la cronaca (magari in neretto), e il cinema noir (spesso in bianco e nero), e gli abominevoli fondi neri ma anche i conti correnti benedetti quando non più in rosso tornano finalmente in nero; e i romanzi neri, i buchi neri, il caffè nero e il nerofumo e il nero di seppia, perfino nei risotti… Tutta roba scorretta usata sconsideratamente e senza permessi finora…
E certo, si comincia sempre col linguaggio. Sopprimendo le parole già “obiettive” che precisano una realtà fisica non approvata: nano, cieco, zoppo, sordo, gobbo, storpio, muto, facchino. Mentre tutta l’Italia burocratica, eufemistica e ipocrita nelle sue osservanze di rappresentanza, è tradizionalmente soddisfattissima di esprimersi esclusivamente per metafora, o mediante litote: la pratica e conveniente figura retorica piccolo-borghese e benpensante e dabbene che allude a un dato di fatto o un concetto negando il suo contrario. Oggi, non vedente, non deambulante, non udente: come ieri «non si sente troppo bene», detto dei moribondi. Ma con nuovi problemi: con che litote aggiornare un cognome così non corretto come Alberto Sordi, e come definire gobbo Rigoletto affermando il suo contrario. (Però intanto dilettandosi preferibilmente con storiacce e figuracce di massacri e delitti storici e attuali e fantastici, con sbudellamenti e tormenti possibilmente efferati, immaginari e autentici. Anche nazisti e cannibali, con l’ipocrisia dell’alibi moralistico: «per far sì che non si ripetano mai più». Così intanto si replicano giorno e notte, passando dalle SS a Godzilla: per la gioia dei grandi e piccini correttissimi che adorano il serial killer, hanno il cult dello sventratore, e vogliono vedere il sangue). —
(Alberto Arbasino, Paesaggi italiani con zombi, Adelphi Milano 1998)

domenica 26 agosto 2012

"Serate fiacche" 1

— Ciclicamente, atavicamente, in ogni generazione italiana, gli inveterati conformismi e le intolleranze inestirpabili si camuffano con etichette aggiornate (secondo i nostri trasformismi classici e cronici) per meglio imporre le faziosità arroganti e sfogare le bili individuali. In nome di Dio, del Papa, del Duce, di Gesù, dei Savoia, della Madonna, di Stalin e Togliatti, dei Dogmi, delle Circolari, delle Contestazioni, di teoremi e assiomi imposti da rivoluzionari e reazionari, militari e reverendi, presidenti di comitati e portavoce di sigle.  Generazioni e battaglioni di legionari, bigotti, militi, militanti, miliziani, bacchettoni, beghine, squadristi, terroristi, attivisti, agitprop, predicatori, leaderini, maestrini, capetti, con invariabili settarismi aggressivi: fino alle intimidazioni e angherie del «politicamente corretto».
Una costante propriamente etnica: i soliti Machiavelli e Guicciardini, nonché Leopardi, Gramsci, D’Annunzio e altri la spiegano benissimo (antropologi formidabili…). E si ripropone e ripete continuamente identica: con una sopraffazione dispotice e tirannica in nome di boss discutibili e slogan fanatici. Una reverenza servile ai “superiori” e alle ovvietà del momento; e un prepotente scarico di livori personali (e gelosie, rivalità, concorrenze, invidie) contro gli avversari privati e i colleghi di mestiere. Sotto l’ombrello generale dell’intolleranza riciclata e incurabile: soprattutto quando i trasformismi «politicamente corretti» impongono di far coincidere il Conformismo con la Trasgressione. Uniformare l’Ottemperanza e l’Osservanza con la Provocazione & Dissacrazione istituzionale. Omologando l’Alternativo ufficiale e il Dissenso rituale nell’optional obbligatorio del Consenso di Regime. Con apparente perdita di coordinate e parametri per gli zombi e i cloni.  E inquadramento immediato nelle nuove normative per i sudditi.
Il Politicamente Corretto, cioè il conformismo pià tipico del nostro tempo (targa: «P.C.» o «pc», dunque da non confondere col vecchio partito comunista nostrano o col personal computer), spunta anni addietro e si sviluppa nelle più intolleranti e pedanti università americane di provincia, come ripresa di bigottismi e tabù intransigenti dopo l’apparente epifania “liberatoria” o “rivoluzionaria” dei meno puritani anni Sessanta. Ne fa proprie talune rigide convenzioni di abbigliamento e linguaggio (come le canottiere e capigliature zozze dei vecchi cantanti di successo, più codificate e immutabili nei decenni che qualunque uniforme militare o paramento ecclesiastico o tailleur di Chanel). E le applica a tutti i codici e protocolli e dispositivi censori della nuova convenzionalità.
Con osservanze devote e totem tassativi. Come quando le zie e prozie Benildi o Clotildi non avrebbero mai detto né scritto piede o prete perché fra i dabbene corretti si può usare soltanto estremità e sacerdote. Non si va, ma ci si reca. Non si sente, bensì si ode o si ascolta. Ci si esprime come nei regolamenti burocratici e nelle circolari delle associazioni, con eufemismi reverenziali, metafore rispettose, schizzinosità permalosissime su aggettivi e avverbi. (Non già ricorrendo a vocaboli impietosi e scomodi per dissacrare interiezioni banali come «cazzo» o «culo»). Non esistevano nemmeno le figlie, ma solo alcune figliuole, da tutelare come sprovvedute in tutto e per sempre: come i gruppi e i comitati d’oggidì. E per le signorine o signore insegnanti, l’abituccio o la canzonetta immodesta potevano costituire infrazioni talmente riprovevoli da imporre immediata denunzia alla direttrice didattica perché convocasse d’urgenza il consiglio scolastico. Onde prender gli opportuni provvedimenti punitivi per tutte le scuole del Regno; e fare intervenire la milizia volontaria per la sicurezza nazionale, le commissioni dei genitori benpensanti, le squadre del buon costume, gli ispettori del “repulisti” anche «negli angolini» e «sotto le lenzuola». —  
(Alberto Arbasino, Paesaggi italiani con zombi, Adelphi Milano 1998)