venerdì 30 settembre 2011

Una breve riflessione sulla società "civile".

Diciamolo sinceramente, la cosiddetta "società civile" è una merda totale!
Più che società civile dovrebbe chiamarsi società incivile, società della depravazione.
Oggi, dopo diverso tempo, ho comprato e letto un quotidiano (LaStampa, per la precisione) e, tra le varie, ho letto un articolo che mi ha provocato il disgusto che sto tentando di esternare.
Si parla, apparentemente, di sport.
Ma in realtà lo sport non c'entra nulla. Perché ogni occasione diventa buona per lanciare messaggi incivilmente civili.
A quanto pare (mi scusino gli eventuali appassionati, ma ignoravo questo fatto) venerdì prossimo a Belgrado, in Serbia, la nazionale italiana di calcio sfiderà quella serba.
Il discorso è semplice.
Dopo un'infame guerra in cui il popolo serbo ne ha subite di ogni, e in cui i bombardamenti tricolore hanno avuto un ruolo tutt'altro che secondario, e, come non bastasse, la Serbia è stata fatta passare da vittima a carnefice solo perché ha tentato di difendersi e, ciliegina sulla torta di merda, a cui è stata scippata la sovranità sulla regione Kosovo (poi riconosciuta come indipendente da una masnada di pirati che si fanno chiamare Onu e dai suoi stati lacché).
Ecco, in una società (presunta) civile si dovrebbe riconoscere, quanto meno, l'orgoglio e la dignità di un popolo che vuole difendere il proprio diritto all'autodeterminazione.
Invece, nella nostra società incivilmente civile e depravata fino al midollo il messaggio che deve passare è che il popolo serbo deve farsene una ragione. Del resto, cosa volete che sia.
Si inorridisce infatti che durante un incontro di volley (il secondo caso citato nella pagina), l'inno di Mameli venga fischiato. "Roba strana in un mondo all'insegna del fair-play, com'è la pallavolo", scrive il cronista.
Ma il "mondo" dello sport, in generale, non è una dimensione a comparti stagni astratta dal mondo reale. Lo sport, comprese bellezze e brutture, fa parte della società, caro cronista.
Ma voi, cari perbenisti con le unghie sporche di sangue, vorreste che lo sport non si invischi con rivendicazioni umane e di civiltà. Ed è proprio questa la depravazione.

martedì 27 settembre 2011

Svegliatevi, dormienti.

«[...] Nel matrimonio ebraico all'epoca di Cristo lo sposo si recava in casa della sposa, accompagnato da ancelle rigorosamente vergini. Nella parabola raccontata da Cristo (Matteo 25:1-13) le ancelle sono dieci, di cui cinque savie e cinque stolte. Quelle savie sanno che non sempre gli sposi sono puntuali; e siccome devono far luce con le loro lampade, si sono portate una scorta d'olio. Quelle stolte no, e male gliene incoglierà.
Quando, dopo lungo ritardo, nel cuore della notte, arriverà lo sposo, svegliando le ancelle che nel frattempo avevano ceduto tutte al sonno, quelle savie avranno olio a sufficienza per far luce; le altre l'avranno finito e dovranno correre a comprarne. A questo punto accade uno dei tanti piccoli eventi crudeli di cui sono costellati i Vangeli: le vergini savie seguiranno lo sposo e verranno ammesse al matrimonio; quelle stolte giungeranno in ritardo e troveranno la porta sprangata. Quando chiederanno al Signore di aprire loro, quello risponderà seccamente "Non vi conosco".
Cosa c'entra Dick in tutto questo?Molto. Quando aveva scelto di intitolare il suo romanzo Cantata 140 era evidentemente a Matteo che pensava, per il tramite di Nicolai e Bach. Wachet auf, proclama il coro all'esordio della cantata. Quell'esortazione è evidentemente rivolta ai dormienti del romanzo, gli sleepers. C'è una possibilità: non dovranno restare ibernati per sempre a spese dello stato; potranno tornare alla vita e salvarsi dal nulla cui li ha condannati un'economia per la quale sono inutili.
Il discorso, indubbiamente, è piuttosto moderno per un romanzo concepito tra il 1963 e il 1964, nel bel mezzo del boom economico del dopoguerra: verte sull'inutilità degli esseri umani, di alcuni esseri umani. Prima che il problema della disoccupazione, del surplus di braccia si manifestasse, Dick aveva già ipotizzato una soluzione grottesca e sarcastica: la gente in più che non serve al sistema economico mettiamola in ghiacciaia. Teniamola da parte. Forse ci serviranno un giorno, forse no, però se li mettiamo in cantina non andranno in giro a prostituirsi, drogarsi, rubare, spacciare e chissà quante altre attività illegali. Teniamo desti solo quelli che servono, che lavorano e consumano. Quelli che fanno girare la macchina del capitale. Gli altri, a dormire. Così non dovremo ricorrere a misure estreme e impopolari (eutanasia? Pena di morte?), e ce li saremo comunque tolti dai piedi.
La questione del romanzo a ben vedere è tutta lì: cosa farne di questi uomini e donne in più, che guarda caso sono di colore (non necessariamente neri, anche nelle varie tonalità del marrone fino al caffelatte più sbiadito)? C'è un sistema che si fonda sui dormienti e su altre misure per tenere bassa la sovrappopolazione. I potenti di quel sistema (i George Walt con il loro bordello orbitale, dove si può godere della vera crack in space, oppure il dottor Lurton Sands che ha trasformato i dormienti in miniera d'organi, e d'oro) ovviamente preferiscono, com'è sempre stato, che il sistema sia preservato, così restano potenti. Altri cercano un'alternativa, e tutti li deridono, e forse non sbagliano, perché quando Bruno Mini compare alla fine del romanzo bisogna riconoscere che è un personaggio ridicolo, un inventore da strapazzo ai limiti della ciarlataneria. Ma l'apertura della breccia nello spazio, del passaggio da una Terra sovrappopolata ed esaurita a un'altra-Terra che all'inizio pare vergine e accogliente, ribalta improvvisamente la situazione.
Come nella parabola di Matteo, arriva lo sposo, cioè il regno dei cieli, e i dormienti si sveglieranno; e la voce che annuncia la venuta è quella di uno dei più strambi candidati alla presidenza degli Stati Uniti che mai la letteratura americana abbia concepito: Jim Briskin, un negro baffuto che va in giro con una parrucca rossa, ex-newsclown, quindi un personaggio da Striscia la notizia più che da Casa Bianca. Un uomo semplice e, lo si capisce da tanti episodi del romanzo, sostanzialmente buono.
»

(Brano tratto dalla postfazione, a cura di Umberto Rossi, di "The Crack in the Space", di Philip K. Dick, 1966; pgg. 200-201, Fanucci Editore, Roma 2002)

Sottofondo consigliato: No time, no space; F.Battiato


domenica 25 settembre 2011

Karel Kosik, "Dialettica del concreto"

[...] L'atteggiamento primordiale e immediato dell'uomo nei confronti della realtà non è quello di un astratto soggetto conoscente, di una testa pensante che considera la realtà speculativamente, bensì quella di un essere che agisce oggettivamente e praticamente, di un individuo storico, che esercita la sua attività pratica in rapporto con la natura e con gli altri uomini, e persegue l'attuazione dei propri fini e dei propri interessi entro un determinato complesso di rapporti sociali. Pertanto la realtà non si presenta dapprima all'uomo sotto l'aspetto di un oggetto da intuire, da analizzare e da comprendere teoricamente - il cui polo opposto e complementare è appunto l'astratto soggetto conoscente, che esiste fuori del mondo e appartato dal mondo - ma come il campo in cui si esercita la sua attività pratico-sensibile, sul cui fondamento sorgerà l'immediata intuizione pratica della realtà. Nel rapporto pratico-utilitaristico con le cose - in cui la realtà si svela come mondo dei mezzi, dei fini, degli strumenti, delle esigenze e degli sforzi per soddisfarle - l'individuo "in situazione" si crea delle proprie rappresentazioni delle cose ed elabora tutto un sistema correlativo di nozioni che coglie e fissa l'aspetto fenomenico della realtà.
Ma "l'esistenza reale" e le forme fenomeniche della realtà - che si riproducono immediatamente nella testa di coloro che realizzano una prassi storica determinata, come complesso di rappresentazioni o categorie del "pensiero comune" (che soltanto per "barbara abitudine" vengono considerate concetti) - sono diverse e spesso assolutamente contraddittorie con la legge del fenomeno, con la struttura della cosa e cioè col suo nucleo interno essenziale e col concetto corrispondente. Gli uomini usano il denaro e con esso eseguono le transazioni più complicate, senza nemmeno saper nè essere tenuti a saper cos'è il denaro. Quindi la prassi utilitaria immediata e il senso comune ad essa corrispondente mettono gli uomini in condizione di orientarsi nel mondo, di familiarizzarsi con le cose e di maneggiarle, ma non procurano loro la *comprensione* delle cose e della realtà. Per questa ragione Marx può scrivere che coloro i quali determinano effettivamente le condizioni sociali si sentono a loro agio, come un pesce nell'acqua, nel mondo delle forme fenomeniche, estraniatesi ala loro connessione interna e assolutamente incomprensibili in tale isolamento. In ciò che è intimamente contraddittorio essi non vedono nulla di misterioso, e il loro giudizio non si scandalizza minimamente di fronte all'inversione di razionale e irrazionale. La prassi di cui si tratta in questo contesto è storicamente determinata e unilaterale, è la prassi frammentaria degl'individui, fondata sulla divisione del lavoro, sulla ripartizione della socetà in classi e sulla gerarchia di posizioni sociali che su essa s'innalza. In questa prassi si forma tanto l'ambiente materiale determinato dall'individuo storico, quanto l'atmosfera spirituale in cui l'apparenza superficiale della realtà viene fissata come mondo della pretesa intimità, confidenza e familiarità in cui l'uomo si muove "naturalmente" e con la quale ha a che fare nella vita d'ogni giorno.
Il complesso dei fenomeni che affollano l'ambiente quotidiano e la comune atmosfera della vita umana, che con la loro regolarità, immediatezza ed evidenza penetrano nella coscienza degli individui agenti assumendo un aspetto indipendente e naturale, costituisce il mondo della pseudoconcretezza.
Ad esso appartengono:
il mondo dei fenomeni esteriori, che si svolgono alla superficie dei processi realmente essenziali;
il mondo del trafficare e del manipolare, cioè della prassi feticizzata degli uomini (la quale non coincide con la prassi critica rivoluzionaria dell'umanità);
il mondo delle rappresentazioni comuni, che sono proiezioni dei fenomeni esterni nella coscienza degli uomini, prodotto della prassi feticizzata, forme ideologiche del suo movimento;
il mondo degli oggetti fissati, che danno l'impressione di essere condizioni naturali e non sono immediatamente riconoscibili come risultati dell'attività sociale degli uomini.
Il mondo della pseudoconcretezza è un chiaroscuro di verità e inganno. Il suo proprio elemento è il doppio senso. Il fenomeno indica l'essenza e contemporaneamente la nasconde. L'essenza si manifesta nel fenomeno, ma soltanto in modo inadeguato, parzialmente, oppure solo per certi lati e certi aspetti. Il fenomeno rimanda a qualcosa d'altro da se stesso, e vive soltanto grazie al suo contrario. L'essenza non è data immediatamente: è mediata dal fenomeno e pertanto si manifesta in qualcosa d'altro da se stesso. L'essenza si manifesta nel fenomeno. Il suo manifestarsi nel fenomeno rivela il suo movimento e dismostra che l'essenza non è inerte e passiva. ma proprio allo stesso modo il fenomeno rivela l'essenza. La manifestazione dell'essenza è appunto l'attività del fenomeno.

(Karel Kosik, Dialettica del concreto)