domenica 29 agosto 2010

Il declino di una città: da Torino a Chiamparinopoli.

Non so cosa pensa chi arriva da fuori, chi fa il turista. Io che ci vivo penso che sia molto bella, tutto l'anno e a qualsiasi ora del giorno o della notte.
Certo che vive per mezzo dei suoi abitanti, ma personalmente la preferisco quando è quasi deserta, quando si cammina per interi quadrilateri e non si incontra nessuno. Perché, secondo me, si esalta nella sua bellezza. Perché possiede una linfa storica e culturale che le permette di vivere di rendita.
I marciapiedi senza bordo di molte vie del centro che riportano a un tempo in cui le automobili erano una rarità concessa solo ai ricchi; le targhe coi nomi delle strade che illustrano il numero dell'isolato e il quartiere d'appartenenza; i balconi in pietra dei cosiddetti "piani nobili"; le finestre degli abbaini; i cortili con le fontane e, ancora in molti casi, le stalle riadattate a box per auto; i "toret", tipiche fontanelle di strada, ornate con testa di toro e dipinte di verde; i corsi abbondanti di platani e castagni; le tantissime piazze che, alcune grandi e altre piccole, raccontano le vicende dei dintorni e la storia della città; le persiane di legno verdi o grigie che arredano elegantemente le facciate.
Ogni angolo possiede una propria particolarità e, a dispetto della sua ritmica squadrata, difficilmente si ha l'impressione di trovarsi due volte nello stesso posto.
E poi i palazzi che, partendo dal centro, definiscono nettamente la direzione storica di crescita del nucleo urbano: barocco, tardo barocco, liberty, littorio, moderno, postmoderno.
Chi arriva in treno e scende a Porta Nuova, la stazione principale, si guarda intorno e subito si rende conto dell'unicità del paesaggio. La facciata della stazione è in stile Liberty e altrettanto il giardino della piazza che le sta di fronte, poi a destra e a sinistra un viale, corso Vittorio Emanuele II, che si allunga a perdita d'occhio interrotto da un lato, verso nord, dall'imponente statua dedicata al re e dall'altro, verso sud, dal ponte sul po dedicato al re Umberto I, e ancora chilometri e chilometri di portici che quasi nascondono alla vista i portoni dei palazzi a sottolineare la riservatezza che i cittadini ricercano e, in molti casi, ostentano.
E poi ancora, piazza Statuto con la statua dedicata ai caduti durante la costruzione del traforo del Frejus e i palazzi, tutti uguali per dimensioni e colori, un tempo riservati alle sedi diplomatiche molto numerose durante il periodo in cui fu capitale d'Italia. Il quartiere "Cit Turin" dove trionfa lo stile Liberty. La zona degli artisti con la piccola e meravigliosa piazza dedicata a Maria Teresa, principessa di Savoia, e le botteghe dei collezionisti e le gallerie d'arte. La strada principale, via Roma, che con i suoi palazzoni in stile Littorio sembra avvolgere la assolutamente metafisica piazza San Carlo, detta anche il "salotto di Torino", dove un trionfo di Barocco sembra aver fermato l'orologio del tempo all'epoca del Regno di Piemonte. E ancora, il San Paolo uno dei quartieri popolari più antichi che conserva i vecchi stabilimenti Lancia incastrati tra i palazzi abitati dagli operai.
Potrei continuare a descrivere tutti gli scorci che mi affascinano, ma mi fermo per non annoiare chi legge.
Quando sento il bisogno di respirare e assaporare quello che definisco il "vero spirito" di questa città, passeggio per le vie laterali quelle che solo i torinesi frequentano oppure faccio un giro in macchina per la penultima periferia dove il carattere popolare sembra essere rimasto intatto con le sue piole con le sedie impagliate occupate da anziani che giocano a carte o le massaie coi fianchi larghi e le sporte traboccanti di frutta e verdura appena acquistate in uno dei numerosi mercati.
Se poi il grigiore tipico del tardo autunno e una sottile ma tagliente pioggerella copre il tutto, il mio cuore esplode dall'emozione. Perché in queste condizioni si esalta a livelli eccezionali la bellezza e la natura riflessiva della città.
Tutto ciò è quel che amo di Torino, ed è quello che mi ha impedito di trasferirmi altrove, nonostante non mi siano mancate le occasioni.
Ma io voglio continuare a viverci e voglio morire qui.
Esiste però anche una parte fastidiosa, ed è la piega di ultra-progresso che negli ultimi venti anni le è stata imposta dalle amministrazioni che si sono alternate alla sua gestione.
E' importante chiarire che il sottoscritto non è assolutamente contrario al progresso, ma è altresì contrario allo scempio dettato da pelosi interessi economici e spacciato per progresso.
Non sono affatto esperto di urbanistica, ma non credo che sia necessario esserlo per rendersi conto che le recenti costruzioni siano un'offesa al buon gusto. Tanto da chiedersi se qui esista o meno un piano regolatore e uno specifico assessore istruito al suo rispetto.
Può sembrare paradossale affermarlo, ma si rimpiangono i palazzi costruiti negli anni Cinquanta e Sessanta per ospitare i lavoratori emigrati dal Meridione e dal Nord-Est in zone come Mirafiori, Le Vallette o Falchera che, nonostante la loro esagerata uniformità a tratti triste, forse, rendono comunque un'idea e una fotografia di quartieri vivi. Mentre i nuovi insediamenti abitativi che stanno sorgendo al posto dei vecchissimi stabilimenti abbandonati, sono sciatti, inodori, incolori, malgrado siano abbigliati con tinte sgargianti. Facciate di sole finestre, chiese ripiene di guglie improponibili e adorne d'acciaio. Il tutto costruito intorno ad enormi e impersonali capannoni adibiti a centri commerciali dove le insegne delle griffe squarciano la quiete del paesaggio.
Infine lo spreco.
Un nuovo genere di spreco, però, lo spreco a rendere.
Torino, tra alti e bassi, ha una popolazione che oscilla tra i novecentomila e il milione e mezzo di abitanti. E nonostante ciò può tranquillamente competere con le metropoli europee per quanto concerne le strutture sportive o pseudo tali.
Escludendo, ovviamente, le numerose piscine e le palestre di cui ogni quartiere è fornito, si possono contare: un velodromo, mèta di appassionati per la sua facciata e per il monumento dedicato a Fausto Coppi che gli sta di fronte ma che versa in condizioni di semiabbandono; due stadi per il calcio più uno in costruzione (il Comunale o Olimpico, il "Primo Nebiolo" e l'ex "Delle Alpi") e qui è necessario aprire una breve parentesi per illustrare la storia degli stadi a Torino dal Mondiale '90 ad oggi: all'epoca lo stadio Comunale aveva una capienza di circa settantacinquemila spettatori (in piedi), che ben stretti aumentavano a settantottomila circa, e anziché ristrutturarlo modernizzandolo e rendendolo idoneo alle nuove norme sulla sicurezza, si decise di costruirne uno in periferia per, si disse allora, "evitare le interminabili code e ottenere una defluenza più rapida", ma si scoprì in seguito che i motivi erano altri ossia l'ottenimento di fondi supplementari da Stato, Coni e Fifa, la storia del Delle Alpi dura sedici anni fatti di fastidi per i frequentatori della struttura dovuti alle raffiche di vento e alla scarsa visibilità, insomma uno stadio che non è mai piaciuto a nessuno. L'occasione per rivalersi arriva con le Olimpiadi invernali del 2006, quando si decide di ristrutturare il vecchio impianto Comunale, casa delle due principali squadre di calcio per oltre cinquant'anni, e, inspiegabilmente, invece di allargare le tribune e stabilire una capienza sui quaranta-cinquantamila si decide di stringere e rimpicciolire il tutto fino ad ottenere una capienza massima di ventitremila persone e con una a dir poco orribile visibilità del campo da ogni punto, complice soprattutto la presenza di barriere in plexiglass, per non parlare delle difficoltà inerenti il traffico automobilistico intorno alla struttura e quelle suscitate dai commercianti ambulanti del vicinissimo mercato di corso Sebastopoli, sale così il livello di avversione da parte degli stessi frequentatori. La Juventus, ovviamente mossa dai propri interessi commerciali, minaccia l'amministrazione di emigrare in un altra città e in risposta, la stessa amministrazione, cosa fa? Concede al Torino l'usufrutto gratuito dell'impianto per novantanove anni, mantenendo la proprietà e quindi senza la possibilità di apporre modifiche alla capienza e vende alla Juventus per una cifra ridicola l'impianto della Continassa (il Delle Alpi) così che possa ristrutturarselo a piacere.
Continuiamo con l'elenco delle strutture sportive.
La piscina Comunale, ex impianto dotato di vasca olimpica; due palazzetti del ghiaccio, completamente inutilizzati; e quattro palazzetti dello sport: il Palasport del parco Ruffini, un tempo casa della locale squadra di basket; il PalaVela; il PalaOval e il PalaIsozaki.
E, tuttavia, per esempio, uno dei festival estivi di musica per cui giungono in città giovani da tutta Europa, il Traffic Free Festival, si svolge a Venaria Reale, comune dell'hinterland.
Indubbiamente, per questioni economiche, si è dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Aldilà infatti di quella attuale, Torino vive una crisi da almeno quindici anni con fabbriche che chiudono e società che traslocano, a Milano per esempio. E' perciò chiaro che si è dovuta reinventare. Ma questa operazione di rinnovamento, è stata guidata da una piega verso il basso.
Se la vecchia Torino operaia degli anni Sessanta-Settanta, pur mantenendo questa impostazione, era riuscita ad evolversi crescendo culturalmente fino a diventare un centro di nteresse turistico, ora il rischio reale è di trasformarsi in città-dormitorio.
Per carità, non dimentichiamo che su Torino incombe la vicinanza di Milano, come accennato, e non si tratta qui di fomentare campanilismi a volte sciocchi. Ma, a chi piace essere satellite?
Concludendo, ritengo che questa città abbia potenzialità poco coltivate e poco sviluppate e il sindaco, anziché pensare esclusivamente alla propria ambizione di amministratore a livello nazionale travestendo la città a sua immagine e somiglianza (tanto che in molti oramai la chiamiamo Chiamparinopoli.....), dovrebbe esaltarle invece che svenderle al peggior offerente.
Ripeto, non voglio fare il campanilista a tutti i costi ma non dimentichiamo che qui sono state battezzate molte eccellenze nazionali: la radio, la televisione, il cinema, le aziende del telefono, dell'energia elettrica, dell'automobile solo per citarne alcune. Senza contare poi che è da sempre una fucina di pensatori, scrittori, musicisti, ingegneri, informatici e chi più ne ha ne metta.

venerdì 27 agosto 2010

Un "virus" moderno.

Quando, oramai tre anni fa, ho iniziato a scrivere (su) questo blog, era soprattutto la curiosità che mi spingeva. Avevo sentito vagamente parlare di tale realtà e, nel pieno rispetto delle moderne regole di omologazione, mi sono detto: voglio farlo anch'io.
Qualcuno mi aveva detto che scrivevo bene (mi pare evidente che fosse una presa in giro...) e dentro di me è partita la scintilla.
Da un punto di vista creativo, i primi tempi sono stati eccezionali.
Sentivo di avere qualcosa da dire tutti i giorni. Ma sentivo anche che mancava una delle parti fondamentali: il dialogo.
Le visite, e soprattutto i commenti, erano così rare da farmi pensare di avere sopravvalutato le mie capacità. Così ho deciso di traslocare su una piattaforma meno ampia e sono approdato su Libero che, a mio parere allora, rispetto ad altri offriva una buona scelta di template e, soprattutto, una community di utenti ben avviata.
Ho parcheggiato i miei pensieri e i miei disgusti lì per un annetto e devo ammettere che mi ha dato qualche soddisfazione, il flusso di visitatori è aumentato esponenzialmente fino ad assestarsi sulle cinquanta fisse giornaliere (...che per molti è un numero da ridere, ma per il sottoscritto era un risultato fenomenale) e anche i commenti, quindi l'opportunità di dialogo, non mancavano.
Ho conosciuto (diciamo virtualmente) molte persone, alcune molto gradevoli, altre molto meno, ma comunque nell'insieme ho ricordi piacevoli di quel periodo.
Poi la "scoperta", il grande fastidio.
Non ho mai avuto la pretesa di possedere conoscenze particolari, ma ci sono momenti nella vita di ognuno di noi in cui ci si pone determinati quesiti di ordine fondamentale. Sono, queste, le classiche domande filosofiche che, volenti o nolenti, assillano il genere umano: chi e cosa siamo? qual'è il nostro scopo? In breve, la domanda delle domande: perchè?
Quindi, con tutti i limiti personali che possiedo, ho tentato di toccare argomenti di un certo tipo.
La delusione è stata tale da farmi pensare di avere a che fare con individui disinteressati e ignoranti.
Appena dedicavo un post a questioni filosofiche o politiche di un certo livello, ma pur sempre con il mio stile, che non definisco elementare ma nemmeno accademico, tutto taceva.
Pochi commenti, nessuna riflessione degna di nota, tranne qualche saluto o complimento (che , nel caso specifico, risultava a dir poco fastidioso).
Mi chiedevo: è possibile che quando si parla di cazzate tutti hanno qualcosa da dire e quando invece si parla del senso della vita o di importanti questioni politiche (...non nel senso di gossip parlamentare) nessuno si degni di, quanto meno, prestare attenzione?
Tutto ciò mi ha convinto a ritornare da dove ero partito e, armi e bagagli, ho fatto dietro-front qui su Blogger.
"Va bene. Ok, hai raccontato la tua storia. Ma qual'è il punto?"
Il punto è che mi ero sbagliato.
Mi sono reso conto che il problema non era causato da ignoranza o disattenzione.
Il problema è lo stesso che affligge l'umanità occidentale tutta: l'iper-individualismo.
Non interessa a nessuno costruire rapporti con altre persone, l'unico scopo è dire la "nostra". Ma ci importa poco o nulla se dall'altra parte c'è una persona o un tronco d'albero o una macchina che risponde in automatico.
E tutto ciò, evidentemente, è contrario alla natura umana.

mercoledì 25 agosto 2010

No Beast so Fierce (3 of 3)

"Come una bestia feroce" si accentra principalmente sulla rabbia e la frustrazione che il protagonista del romanzo, proprio come lo stesso Bunker, prova quando viene rimesso in libertà e si trova a dover fronteggiare nel migliore dei casi l'indifferenza, nei peggiori l'odio e l'ostilità del mondo esterno.
Uno dei ricordi più brucianti che Bunker conserva di quei momenti riguarda le dolorose vesciche provocate dalle scarpe normali, dopo che per anni i piedi erano stati abituati alle ampie calzature della prigione. Prima della sua uscita, Bunker aveva scritto centinaia di lettere richiedendo lavoro, senza ottenere una sola risposta. La sua fedina penale aveva agito come un'efficace condanna. E' questo il destino di molti ex detenuti in America, per i quali spesso l'espiazione dei peccati in carcere non è sufficiente, agli occhi della società civile, a garantire una significativa redenzione.
Emarginato nel vero senso della parola, Bunker si fece ancora una volta fagocitare dal crimine. Una notte, dopo aver scassinato la cassaforte di un bar, venne arrestato dopo un vertiginoso inseguimento in auto e venne immediatamente processato. Nell'aula del tribunale si finse pazzo, e poco dopo convinse gli specialisti a emettere una diagnosi di schizofrenia. Lo stratagemma ebbe un tale successo che Bunker venne spedito alla prigione di Vacaville e classificato come detenuto pericoloso, giudizio che Bunker fece di tutto per confermare abbandonandosi più spesso che poteva a solitari e sonori deliri.
Riportato davanti alla corte, Bunker riuscì a farsi concedere la libertà su cauzione e restò in libertà per più di un anno.
In questo periodo si spostò in continuazione tra Los Angeles e San Francisco, gestendo quello che oggi definisce "un piccolo impero della droga". Ma i fondi presero a scarseggiare. Per aumentare le sue entrate, decise di rapinare una prospera piccola banca di Beverly Hills. Ma a questo punto si verificò la più incredibile delle coincidenze, che avrebbe potuto avere connotazioni davvero comiche se le sue conseguenza non fossero state così gravi. All'insaputa di Bunker, gli agenti della narcotici avevano nascosto un segnalatore nell'auto usata da Bunker per la rapina. Ci si aspettava che il "pollo" potesse condurre le forze dell'ordine nel bel mezzo di una trattativa illegale. Ma Bunker, armato e preparato a commettere una rapina e seguito non soltanto da un'auto ma perfino da un elicottero, condusse gli agenti proprio davanti all'ingresso della banca, dove si scatenò il pandemonio quando lo sfortunato rapinatore venne riconosciuto, inseguito a lungo in auto, catturato ad armi spianate e severamente percosso.
Questa volta le prospettive erano per Bunker piuttosto grame. Già per tre volte in galera, Eddie si apsettava una condanna a venticinque anni. Tentò il suicidio, ma venne condannato a cinque anni per tentata rapina e a sei anni per traffico di droga, pene da scontarsi simultaneamente.

(Tratto dall'introduzione di "Come una bestia feroce" di Edward Bunker, a cura di William Styron; Mondadori, Milano)

sottofondo consigliato: "Two of Us", The Beatles, 1970


martedì 24 agosto 2010

No Beast so Fierce (2 of 3)

- Ascolti, ho trentun anni. In testa ho più capelli grigi di lei. Spero di essere abbastanza maturo da poter prendere delle decisioni, se non altro su dove dormire. Se la prigione non mi ha insegnato almeno questo, significa che è stata un gran spreco di tempo.
- Tenendola dentro, la prigione ha protetto la società. E proteggere la società è anche il mio lavoro, il mio primo lavoro.
- Mi hanno fatto uscire. E io voglio restar fuori. Non è costretto a soffiarmi di continuo sul collo. Fa un servizio migliore se mi aiuta, no? Voglio essere una persona rispettabile. ma potrei anche non essere in grado di capire il significato della rispettabilità nel modo in cui lo intende la maggior parte della gente.
Mi fermai, sforzandomi di incanalare l'agitazione in una serie di parole sensate, il sudore a bagnarmi la fronte e le ascelle. - Deve rendersi conto che sono diverso da lei. Sono deviato e intrappolato da fin troppi ieri per essere uguale a lei. Ma ciò non significa che sia una minaccia per la società. Se credessi che il mio futuro debba per forza essere uguale al mio passato, mi ucciderei. Sono stanco. Posso forzarmi quanto basta per mantenermi entro i confini della legge, ma non sarò mai l'ometto che torna dalla moglie e dai figli nel suo villino sulla San Fernando Valley. Vorrei tanto esserlo, ma non lo sono. E le sue minacce non m'aiuteranno a controllarmi. Le minacce provocano rabbia, non paura.
- Nessuno la sta minacciando - replicò Rosenthal. - Sto soltanto mettendola al corrente della realtà della situazione, di ciò a cui si dovrà adattare.
- Suonano come minacce.
- Sono qui per aiutarla.
- Ripetendomi "dovrai" e "non dovrai".
- Non ho stabilito io le condizioni per la libertà condizionata. Mi limito a farle rispettare. Non potrei darle il permesso di contravvenire alle regole neppure se lo volessi. Se lo facessi non continuerei a lavorare per molto.
- Mi dimostri un minimo di flessibilità e io farò lo stesso. Si limiti a chiedermi di non commettere crimini, non pretenda che io viva secondo i suoi criteri morali. Se è la società che lo richiede, allora la società non avrebbe dovuto assegnarmi a decine di famiglie diverse e rinchiudermi nei riformatori, finendo per rovinarmi. E questi ultimi otto anni: cazzo, dopo un'esperienza del genere nessuno sarebbe più normale. Cerchi di capire la mia situazione. Non conosco nessuno se non ex detenuti, malviventi e prostitute. Non riesco nemmeno a sentirmi a mio agio in compagnia della gente regolare. Mi piacciono le squillo, non le brave ragazze. Non ho bisogno di un'analisi freudiana, che in ogni caso non riuscirebbe a cambiare i fatti. ma il fatto che preferisca andare a letto con una puttana non significa che sia sul punto di usare una torcia all'acetilene su una cassaforte.
- Significa che vuole il permesso di fare il magnaccia.
- No! No! Voglio solo che lei capisca che non si possono ridurre le persone a delle formule. - M'interruppi per tirare il fiato e per estrarre espressioni comprensibili dal vortice di confusi pensieri che mi aveva assalito la mente. - Fondamentalmente le sto chiedendo di non trasformare la mia libertà vigilata in un guinzaglio con cui strozzarmi.
- Fondamentalmente vuole fare di testa sua, non è così?
Lo stomaco mi si serrò in un nodo. Rosenthal era inamovibile. Avevo tentato. Rivoli di sudore mi scendevano sotto la camicia. Un terribile pensiero esplose in superficie. E se Rosenthal avesse avuto ragione? E se davvero seguire ciecamente le regole fosse la chiave per raggiungere la felicità e la pace interiore? Era possibile che un individuo solo, per quanto sicuro delle proprie opinioni, fosse nel giusto? Forse Rosenthal riusciva a vedermi con chiarezza, mentre il sottoscritto si autoaccecava con una cortina di parole. Accettare un pensiero del genere equivaleva a mettere un piede oltre l'orlo dell'abisso. Tornai sulla terraferma della segreta indignazione. Avevo cercato di essere onesto, ma il fottimadre non era uno di cui ci si potesse fidare. Avrei usato l'inganno.
Rosenthal mi guardava, un sorriso da Gioconda dipinto sulle labbra spesse, gli occhi luccicanti, le mascelle a lavorare la gomma. - Lasciamo perdere le stronzate e parliamo di cose serie - disse. - Ora le dirò ciò che mi aspetto da lei.
Annuii in segno di accettazione.
- Non la metterò in una casa di riabilitazione - riprese - per la semplice ragione che sono tutte piene. La trovo ancora la soluzione migliore, ma non posso farci nulla. Lei ha un passato di tossicodipendenza, e quindi le richiederò l'esame settimanale. Ecco il modulo da firmare. - Allungò la mano verso un cassetto.
- Non mi faccio di eroina da quando avevo diciannove anni.
- Se c'è un passato di uso di droghe di qualsiasi tipo...marijuana, pillole, quello che vuole...il soggetto viene sottoposto all'esame. - Fece scivolare sulla scrivania il modulo e una penna a sfera. Il documento dichiarava che mi sottoponevo volontariamente al programma di esami antistupefacenti. Lo firmai, ribollendo di rabbia. Rosenthal mi spiegò che avrei dovuto presentarmi al centro tra il mezzogiorno e le sei e mezzo di ogni venerdì e mi consegnò un foglietto di carta con l'indirizzo.
- Ora - proseguì - che mi dice del lavoro?
- Sto cercando - risposi.
- I responsabili dell'azienda che l'assumerà dovranno essere informati della sua situazione.
Quelle parole mi causarono un'ondata di nausea. Avevo contato sul fatto di essere in grado di nascondere il mio passato: avrei potuto essere diverso facendo sì che gli altri pensassero che fossi diverso. La gravità di quell'ordine mi stordì.
- E come faccio a trovare un lavoro decente?
- Sono le regole. Oggi lei inizia il suo regime di libertà condizionata. - Gettò un'occhiata al suo orologio da polso.
- Devo lasciarla. Nel pomeriggio mi devo presentare in tribunale. Quando avrà trovato un posto dove stare, lasci il suo indirizzo alla ragazza del centralino. - Allungò una mano verso la sua giacca e mi fece strada verso l'uscita. Camminando mi spiegò la ragione della sua visita al tribunale. Era andato a prendere un detenuto che non si era presentato all'esame. Mentre erano in viaggio verso il centro, il detenuto aveva inserito la mano in tasca e ne aveva estratto un palloncino con una dose da dieci dollari di eroina. Era una storia triste, commentò Rosenthal, perché l'uomo aveva già due precedenti incriminazioni per uso di stupefacenti e sarebbero passati quindici anni prima che avesse potuto presentare un'altra richiesta di libertà condizionata. L'uomo aveva quarantasei anni.
Non dissi nulla. Non provavo alcuna pena per chi aveva agito come un idiota di tali dimensioni. E neppure ce l'avevo con Rosenthal, che si era comportato esattamente nel modo in cui mi ero aspettato si comportasse. Era ancora più cieco di me. Nel suo sguardo potevo scorgere me stesso, ma era un'empatia non corrisposta. Se fossi riuscito a cavarmela, sarebbe stato suo malgrado.
Sul marciapiede mi sentii schiacciato dalla calura. Dovevo trovare una stanza da qualche parte e dormire. Le pillole stavano terminando il loro effetto, lasciandomi addosso una stanchezza doppiamente intensa. E il peso della libertà vigilata si stava trasformando in una sorta di albatro appollaiato sul collo. Avrei dovuto adattarmici o sarei tornato dritto in prigione. - Bastardo - mormorai - succhiacazzi di un bastardo fottimadre.

(Tratto da: "Come una bestia feroce", Edward Bunker; Mondadori, Milano)

sottofondo consigliato: "Coffee shop", RHCP, 1995



to be continued...

lunedì 23 agosto 2010

No Beast so Fierce (1 of 3)

La sezione degli annunci economici del Los Angeles Times ha pagine e pagine di richieste di lavoro. Una piccola frazione di esse poteva andare bene per me, e di questo drappello soltanto una mezza dozzina si trovava in centro, dove avrei potuto provare a rispondere prima ancora di presentarmi da Rosenthal.
Tentai con quattro richieste. Una era già stata soddisfatta. Un'altra era una grossa società che richiedeva che i dipendenti fossero vincolati: mi allontanai senza nemmeno compilare i moduli. Altre due società cercavano venditori: ma avevano bisogno di qualcuno dotato di automobile, e nessuna delle due sistemazioni offriva una garanzia di salario o un anticipo prima del maturare delle commissioni. Personalmente non avevo nè un'auto nè una cifra sufficiente a farmi andare avanti.
Vagando da ufficio a ufficio avevo percorso cinque chilometri a piedi. Dopo così tanti anni di calzature da prigione, i miei piedi non erano abituati alle scarpe basse. Su entrambi i talloni mi si erano formate vesciche delle dimensioni di mezzi dollari e gonfie di liquido. Quando raggiunsi l'ufficio di Rosenthal sul West Olympic Boulevard stavo ormai zoppicando di brutto. A contribuire al mio disagio, il caldo feroce stava iniziando a calare la sua cappa sulla valle di Los Angeles.
L'edificio che ospitava l'ufficio per la libertà condizionata era poco appariscente. Soltanto l'insegna dipinta sulla porta a vetri opachi (Dipartimento Correzionale, Divisione per i Servizi Civili) lo distingueva da una piccola struttura ospedaliera. La saletta d'aspetto, deserta, ofriva alcune panche spoglie e dure. Una centralinista mi annunciò e premette un pulsante.
La porta che dava sugli uffici ronzò mentre la serratura veniva aperta elettronicamente. Il suono mi fece rabbrividire. Oltre quella porta mi sarei tecnicamente ritrovato in stato d'arresto.
Rosenthal mi aspettava alla fine di un breve corridoio appena oltre la porta. era in piedi sulla soglia dell'ufficio, le gambe circonfuse da un alone di luce proveniente dalla finestra. Era senza giacca; le maniche corte della camicia rivelavano un tappeto di spessi peli neri lungo gli avanbracci. -Venga - m'invitò. - Temevo che non si sarebbe presentato. Ieri sera era un po' nervoso.
- Avessi saputo della chiusura elettronica delle vostre porte me la sarei filata. Mi fanno paura. Sembra di essere in una stazione di polizia.
- Ah, quelle... non è una mia idea. Si accomodi.
- Avrei bisogno dell'assegno di uscita.
Rosenthal frugò fra le carte sulla scrivania. - Eccolo - disse allungandomelo.
Lo esaminai tenendolo sollevato fra le dita. - Trenta dollari per otto anni. Non è una gran cifra.
- La società non glielo dovrebbe nemmeno.
- Non è molto, se si vuole iniziare una nuova vita.
- Provi a sentirsi meno martire e più penitente.
- Mi spiace, ma non sento niente se non un po' di amarezza...e sto cercando di reprimerla.
- Dunque, cos'ha fatto ieri sera?
Su quella domanda avevo una menzogna in agguato. - Ho visitato alcuni amici, ho visto una ragazza.
- E' andato da lei?
- No, in un albergo.
- Un po' costoso per un uomo nella sua posizione.
- Non l'albergo in cui sono stato.
Rosenthal piegò la sedia all'indietro e posò i piedi sulla scrivania. Si allacciò le dita grassocce dietro la nuca e prese a fissarmi con severa intensità. Masticava placido un pezzo di gomma americana. La tensione crebbe insieme al silenzio.
- Non sono affatto contento del suo atteggiamento - proclamò infine - e del modo in cui ha iniziato. Prima si rifiuta di andare alla casa di riabilitazione, poi se ne sta in giro tutta la notte. Non è un buon inizio, per niente. E' il suo atteggiamento, il suo punto di vista.
Arrossii, preparandomi a ribattere, ma ricacciai indietro le parole grosse. La sfida alle autorità era un giochetto che avevo praticato molto spesso, e conoscevo la sua iniquità. Se avessi protestato, Rosenthal avrebbe potuto cacciarmi in galera (a patto che non l'avessi steso e me la fossi data a gambe) con un semplice rapporto in cui avrebbe potuto scrivere ciò che voleva, e io mi sarei ritrovato a bordo di un pullman con le sbarre ai finestrini diretto in prigione. Non vi sarebbe stata alcuna udienza, alcuna possibilità di appello; non sarei neppure stato in grado di conoscere i contenuti del rapporto. E così mi controllai, dicendomi che forse un appello alla ragione avrebbe potuto sensibilizzarlo.
- Mi spiace che la pensi così - risposi. - Sto solo cercando di essere franco e sincero. Mi dica cosa avrei fatto di male.
- E' il suo atteggiamento. Gliel'ho già detto. Si sta comportando come se fosse libero, come se potesse fare quel cavolo che le pare. Non è libero. E' ancora in custodia legis, è sempre un detenuto a cui è stato concesso di passare parte della sua condanna in libertà vigilata. E a parte questo, lei ha una lunga sequela di sbagli alle sue spalle. Dovrebbe provare un minimo di rimorso per ciò che ha fatto.
- Otto anni per aver falsificato degli assegni dovrebbero bastare a pareggiare i conti. - Mi resi conto dell'irriverenza delle mie parole non appena le ebbi pronunciate. Il volto di Rosenthal si fece scuro. Era con ogni evidenza un moralista, e si sentiva offeso dal mio dossier. sapeva più cose di me di quanto a chiunque dovrebbe essere concesso di sapere sugli altri. Eppure le parole del dossier non mi descrivevano fino in fondo. Non vi era nulla, lì dentro, che dicesse che ero un essere umano.

(Tratto da: "Come una bestia feroce", Edward Bunker; Mondadori, Milano)

to be continued...


sottofondo consigliato: "Lay Down The Bottle", Jake La Botz.

sabato 21 agosto 2010

History repeating

«Causa la Grande Depressione degli anni 1873-1895, nel cuore della prospera Inghilterra ricompare una miseria che si credeva sparita, quella della Londra dei paria.
Le prime inchieste rivelano tutte la miseria operaia, quella che fu definita pauperismo. Gli operai erano mal nutriti, andavano vestiti di stracci, abitavano in condizioni terribili, i loro quartieri erano focolai malsani di epidemie.
Ciò che colpì fu innanzitutto la durezza e la relativa frequenza delle crisi industriali, che lasciavano senza lavoro e senza risorse, in una stessa città o regione, decine, forse centinaia di migliaia di persone. A Roubaix, nel 1846-1847, il 60 per cento degli operai tessili era disoccupato, e a Rouen lo erano i tre quarti. I grandi stabilimenti di Berlino occupavano, nel 1875, 70.000 operai, tre anni più tardi soltanto 29.000. Il minimo rallentamento dell'attività industriale si abbatteva subito sui lavoratori. Se lavoravano a domicilio per un produttore, questi non era in alcun modo tenuto a fornire loro le materie prime o il lavoro. Coloro che erano salariati potevano essere assunti e licenziati in un'ora: erano ancora rare le imprese sufficientemente moderne da aver bisogno di specialisti che valesse la pena di mantenere qualunque fosse la congiuntura, ai quali garantire una certa sicurezza d'impiego e un pagamento mensile. In queste condizioni, l'operaio viveva alla giornata: la sua situazione fu tremenda nel corso delle crisi della prima metà del secolo e, dal momento che le difficoltà dell'industria erano largamente connesse a quelle dell'agricoltura, esse coincidevano con i periodi di rincaro del prezzo del grano. Tuttavia, se successivamente, al tempo della Grande depressione (1873-1896), il calo dei redditi venne in qualche misura attenuato dal contenimento dei prezzi, specialmente in prodotti agricoli, cominciò ad apparire in Germania e in Gran Bretagna, più che nella Francia maltusiana, una persistente disoccupazione fino ad allora sconosciuta, dissimulata dal sottoimpiego nelle campagne e dall'emigrazione oltre Atlantico.
A ogni modo, i primi osservatori furono unanimi: anche in periodo di piena occupazione, e a prestare fede alle cifre fornite dai padroni e non alle testimonianze dei lavoratori, i salari erano appena sufficienti ai bisogni di un giovane operaio celibe: erano, come noto, troppo scersi per una giovane operaia nubile pressoché condannata alla prostituzione occasionale - essendo la retribuzione delle donne la metà di quelli degli uomini - o per i lavoratori e le lavoratrici in età avanzata, costretti a ricorrere alla pubblica carità. Non erano sufficienti al sostentamento di una famiglia nel caso vi fossero dei bambini. Allora, in tempi normali, la maggior parte delle risorse disponibili - sempre più della metà, più spesso i tre quarti - era destinata all'alimentazione: al pane, soprattutto, chiaramente nero o integrale, ai frutti e alla fecola, ai legumi e ad altri cibi, ma raramente alla carne o al pesce. Un'alimentazione monotona, a base di prodotti di cattiva qualità, quando non volutamente alterati da venditori o commercianti poco scrupolosi. Per una ragione o per l'altra, i tempi erano duri, la fame si faceva sentire, e per sopravvivere si doveva ricorrere agli scarti dei ristoranti e delle mense, delle quali, nella Francia di fine secolo, ancora si faceva commercio. ».
(a cura di U.Frevert e H.G.Haupt: L'uomo dell'Ottocento. Cap. I "L'operaio" di V.Robert, pgg.6-7-8. Laterza, Roma-Bari 2000)

sottofondo consigliato: Kraftwerk, Das Model, 1980

venerdì 20 agosto 2010

"Hell is around the corner".

«Voi credete in un edificio di cristallo, eternamente indistruttibile, cioè di un genere al quale non si potrà fare né una linguaccia di nascosto, né un gestaccio nella tasca. Bé, ma forse io temo questo edificio proprio per il fatto che è di cristallo ed eternamente indistruttibile e non gli si potrà nemmeno fare una linguaccia di nascosto.
Perchè vedete: se al posto del palazzo ci sarà un pollaio e pioverà, forse potrò infilarmici, nel pollaio, per non inzupparmi, ma comunque non lo scambierò per un palazzo per riconoscenza, perchè mi ha riparato dalla pioggia. Voi ridete, dite anche che in questo caso un pollaio o un palazzo sono la stessa cosa. Sì - rispondo io - se si dovesse vivere solo per non inzupparsi.
Ma che fare se mi sono messo in testa che si vive non solo per questo e che, se si deve vivere, allora è meglio vivere in un palazzo?
Questa è la mia volontà, questo il mio desiderio. Voi me lo raschierete di dosso solo quando cambierete i miei desideri. Bè, cambiateli, lusingatemi con altro, datemi un altro ideale. Ma per ora non prenderò un pollaio per un palazzo. Ammettiamo pure che il palazzo di cristallo sia una panzana, che per le leggi della natura nemmeno si pone, e che l'abbia inventato io, solo in conseguenza della mia propria stupidità, in conseguenza di alcune antiche e irrazionali abitudini della nostra generazione. Ma che m'importa se nemmeno si pone. Non è forse lo stesso, se esiste nei miei desideri o, per meglio dire, esiste finché esistono i miei desideri? Forse ridete di nuovo? Ridete pure; io accetterò ogni derisione e comunque non dirò che sono sazio, se ho fame; so comunque che non mi fermerò su un compromesso, su un infinito zero periodico, solo perché esiste per le leggi della natura ed esiste effettivamente. Non prenderò per il coronamento dei miei desideri una casa solida, con appartamenti per inquilini poveri a contratto per mille anni e per ogni evenienza con il dentista Wagenheim sull'insegna. Annientate i miei desideri, cancellate i miei ideali, mostratemi qualcosa di meglio, e io vi verrò dietro. Voi magari direte che non vale neanche la pena di stabilire contatti; ma in tal caso io vi posso anche rispondere la stessa cosa. Consideriamo la cosa seriamente; se non volete degnarmi della vostra attenzione, allora non mi metterò a supplicarvi. Ho il sottosuolo.
Ma finché vivo e desidero, che mi si secchi la mano, se porterò anche un solo mattoncino per una tale solida casa! Non badate al fatto che poco fa io stesso ho respinto l'edificio di cristallo, unicamente per il motivo che non gli si potrà fare una linguaccia. Non l'ho affatto detto perchè ami tanto tirare fuori la lingua. Forse mi sono arrabbiato solo contro il fatto che un edificio tale, al quale non sarebbe possibile fare una linguaccia, tra tutti i vostri edifici ancora non si trova. Al contrario, me la farei tagliare la lingua, per pura gratitudine, ci si sistemasse in modo tale che non mi venisse mai più la voglia di tirarla fuori. Che m'importa se non ci si può sistemare così, e ci si deve accontentare di appartamenti?
Perchè sono stato creato con desideri del genere? Possibile che sia stato creato così solo per arrivare alla conclusione che tutta la mia creazione è solo un imbroglio? Possibile sia tutto qui lo scopo? Non ci credo.
E del resto, sapete una cosa: sono convinto che noialtri del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Seppure siamo capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant'anni, se poi usciamo alla luce e scoppiamo, allora giù a parlare, parlare, parlare...».

(Fëdor Michajlovic Dostoevskij: "Memorie dal sottosuolo", par. "X", pagg. 46-47. Newton & Compton, Roma 1998)

Sottofondo consigliato: Tricky, "Hell is around the corner", 2002

mercoledì 18 agosto 2010

L'arnese subumano

Qualche tempo fa, alla radio.
Tema della trasmissione: "Quella volta che vi hanno rotto l'oggetto a cui tenevate tanto".
Sms di un ascoltatore: "La donna delle pulizie mi ha rotto la puntina del giradischi, che io considero un figlio. Licenziata la sera stessa!".
Sembra incredibile, sembra un'esagerazione, sembra una sciocchezza. Sembra.
Si legge e subito la si dimentica, probabilmente perchè è così grave che non ci si bada più. O, probabilmente, perchè sono così tanti quelli che la pensano in modo simile da rendere l'episodio normale.
Chissà quante volte si è sentito dire di gente disposta addirittura ad uccidere chi danneggiasse un vetro o la vernice sulla carrozzeria dell'automobile. O che si vantano di amare e rispettare più il proprio cane piuttosto che il collega di lavoro o il vicino di casa. Ma si dai, cosa vuoi che sia. Sono cose che si dicono, ma non si pensano realmente.
Siamo proprio sicuri?
Chi vuole pensarla in questo modo è, purtroppo, padrone di farlo. Ed è questo il motivo per cui divido gli esseri umani in "persone" e "mostri".
Una delle citazioni che preferisco è di Karl Marx, e recita: "Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono dotate di vita spirituale e l'esistenza umana avvilita a forza materiale".
In poche parole, ecco il concetto di reificazione ossia la soggettivizzazione dell'oggetto.
La reificazione ha un legame imprenscindibile col capitalismo, al quale interno i rapporti tra esseri umani vengono ridotti a rapporti tra le merci da essi prodotti.
Nel caso in questione, "la donna delle pulizie" non è un essere umano ma è un utensile di lavoro di cui si può disporre a proprio piacere.
Come un chiodo, che quando si piega si getta via e se ne prende un altro.

martedì 17 agosto 2010

The hope of revolution (part 2 of 2)

«Lucifero dette il segnale della battaglia e vi si gettò per primo. Ci avventammo contro il nemico convinti di distruggerlo immediatamente e conquistare al primo assalto la sacra fortezza. I soldati del Dio geloso, meno focosi ma altrettanto fermi dei nostri, si rivelarono instancabili. L'arcangelo Michele li dirigeva con la calma e la decisione proprie di un cuore generoso. Tre volte tentammo di forzare i loro schieramenti che per tre volte opposero ai nostri petti corazzati le punte fiammeggianti delle loro lance pronte a trafiggere le corazze più resistenti. I corpi gloriosi cadevano a migliaia. Finalmente la nostra ala destra sfondò l'ala sinistra del nemico e si videro le terga dei Principati, Potenze, Virtù, Troni e Dominazioni che fuggivano flagellandosi con i calcagni, mentre gli angeli del terzo coro svolazzando smarriti sulle loro teste li ricoprivano d'una pioggia di piume e di sangue. Li incalzammo fra i rottami e le armi ammucchiate affrettando la loro agile fuga...Un uragano di grida ci sorprende ad un tratto.
Si gonfia e si accosta, carico di un vocìo disperato e di trionfali clamori: l'ala destra del nemico, gli arcangeli giganti dell'Altissimo, piombati contro il nostro fianco sinistro, l'hanno spezzato. Dobbiamo abbandonare i fuggiaschi e correre in aiuto alle truppe sbandate. Il nostro principe vi si dirige al volo e ridà fiato alla battaglia. Ma l'ala sinistra del nemico, di cui non avevamo completato la rotta, non più oppressa da frecce e lance riprende coraggio, si volta e nuovamente ci fronteggia.
La notte sospese l'incerta battaglia. Mentre il campo riposava, col favore dell'ombra, nell'aria tranquilla attraversata a tratti dai lamenti dei feriti, Lucifero apprestava la seconda giornata. Prima dell'alba, le trombe suonarono la sveglia. I nostri guerrieri sorpresero il nemico durante l'ora della preghiera e lo dispersero facendone prolungato scempio. Quando non vi furono più che fuggiaschi o caduti, l'arcangelo Michele, da solo con qualche compagno dalle quattro ali fiammeggianti, resisteva ancora all'assalto d'un esercito illimitato. Arretravano seguitando ad opporci i loro petti e Michele continuava ad esibire un volto impassibile. Il sole raggiungeva un terzo del suo percorso, quando prendemmo a scalare la montagna del Signore. La salita era dura, le fronti grondavano sudore e una luce infuocata ci accecava. Carichi di ferro com'eravamo, le nostre piume non bastavano a sollevarci, ma la speranza ci reggeva sulle sue ali. Il bel Serafino, la mano irradiante sempre più alta, ci indicava la via. Scalammo per l'intera giornata il monte altero che la sera ammantò d'azzurro, di rosa e opale. L'esercito di stelle apparse sul firmamento pareva il riflesso delle nostre armi. Un silenzio infinito si stendeva sopra di noi. Salivamo ebbri di speranza.
All'improvviso sprizzano lampi nel cielo oscurato. Si ode il rombare del tuono e dalla vetta del monte avvolta nelle nubi ricade il fuoco dei cieli. Caschi e corazze grondano fiamme e gli scudi si spezzano sotto le frecce scagliate da mani invisibili. Lucifero serbava intatta la sua fierezza nell'uragano di fuoco. La folgore lo colpiva più volte ma sempre invano. Eretto, continuava a sfidare il nemico, finchè la folgore scuotendo la montagna ci precipitò in basso alla rinfusa insieme a enormi blocchi di zaffiro e rubino, e rotolammo svenuti e inerti per uno spazio di tempo che nessuno poté misurare.
Mi svegliai nelle tenebre fra i lamenti. Quando i miei occhi si furono abituati all'ombra fitta, mi scorsi intorno i compagni d'arme giacenti a migliaia sul terreno sulfureo su cui scorrevano lividi riflessi. Non scorgevo che crateri fumanti, solfatare, paludi appestate. Montagne di ghiaccio e mari di tenebra racchiudevano l'orizzonte. Un cielo di bronzo ci pesava sulla fronte. L'orrore del luogo era tale che piangemmo accovacciati, i gomiti sulle ginocchia e i pugni stretti contro il viso. Ad un tratto, alzando gli occhi, scorsi il Serafino, ritto dinanzi a me come una torre. Sul suo splendore primitivo il dolore gettava quasi un cupo e splendido ornamento.
"Compagni" disse "dobbiamo rallegrarci perchè siamo liberi dalla servitù celeste e negli inferi la libertà vale di più che la schiavitù nei cieli. Non siamo vinti perchè ci resta la volontà di vincere. Per opera nostra ha vacillato il trono del Dio geloso, per opera nostra esso crollerà. Alzatevi compagni e in alto i cuori!".
Al suo comando, sovrapponemmo dunque montagne a montagne, drizzammo sulle vette grandi macchine per scagliare rocce infiammate contro la divina dimora. L'esercito celeste fu preso di sorpresa e dalla sua sede gloriosa partirono gemiti e grida di terrore. Pensavamo già di rientrare vincitori nella nostra patria suprema, ma la montagna del Signore si coronò di saette e la folgore cadendo sulla nostra fortezza la ridusse in polvere.
Dopo quest'ultimo disastro, il Serafino ristette per un poco pensoso, la testa fra le mani. Sollevò poi il volto annerito.
Era divenuto Satana, più grande di Lucifero. Gli angeli fedeli gli si stringevano intorno.
"Amici" disse "non abbiamo ancora vinto, perchè indegni e incapaci di vincere. Rendiamoci conto di quanto ci è mancato. Non si governa la natura, non si acquista la padronanza dell'Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. Dobbiamo scoprire la folgore e a questo ci dobbiamo dedicare senza sosta. Non sarà ora il cieco coraggio (nessuno nel corso di questa giornata ha dimostrato più coraggio di voi) a consegnarci le frecce divine, ma lo studio e la riflessione. Meditiamo dunque in questo luogo tetro nel quale siamo piombati, cercando i motovi segreti delle cose. Osserviamo la natura con inesausto ardore e desiderio di conquista, sforziamoci di penetrarne la grandezza e la piccolezza infinite. Tentiamo di scoprire quando essa è sterile e quando è feconda, com'essa produca il caldo e il freddo, la gioia e il dolore, la vita e la morte, come raccolga e divida i suoi elementi e come produca l'aria trasparente che respiriamo, le rocce di zaffiro e diamante da cui precipitiamo, il fuoco divino che ci ha tinti di nero e il pensiero orgoglioso che agita i nostri spiriti. Lacerati da vaste ferite, bruciati da fiamme di ghiaccio, rendiamo grazie al destino che si è curato di aprirci gli occhi, e rallegriamoci della nostra sorte. Facendo una lunga esperienza della natura, attraverso il dolore, siamo incitati a conoscerla e a domarla.
Quand'essa ci obbedirà saremo diventati Dei. Ma se dovesse celare per sempre i suoi misteri, rifiutarci le armi e conservare il segreto della folgore, dovremo ancora rallegrarci per aver conosciuto il dolore, poichè esso ci rivela sentimenti nuovi, più dolci e preziosi di quelli che si provano nella beatitudine eterna, e c'ispira l'amore e la pietà, sconosciuti ai cieli".
Queste parole del Serafino ci mutarono i cuori aprendoci a nuove speranze. Un desiderio immenso di conoscere ed amare ci colmava il petto.
Frattanto nasceva la terra.»
(Anatole France: La rivolta degli angeli, 1914. Cap. XVIII, pagg. da 103 a 109. Armando Curcio, Milano 1978)

sottofondo consigliato: Franco Battiato, Shock in my town (1998)


lunedì 16 agosto 2010

The hope of revolution (part 1 of 2)

«L'ho conosciuto. Era il più bello tra tutti i Serafini. Splendeva d'intelligenza e audacia. Il suo grande cuore traboccava d'ogni virtà che nasce dall'orgoglio: la franchezza, il coraggio, la costanza nell'avversità, la speranza ostinata.
A quei tempi che precedevano i tempi, nel cielo boreale dove brillavano le sette stelle magnetiche, abitava in un palazzo di diamanti e oro, pulsante di battiti d'ali e canti di vittoria. Jahweh, dalla sua montagna, era geloso di Lucifero.
Sapete entrambi che gli angeli, come gli uomini, racchiudono in sè odio e amore. Capaci talvolta di generosi impulsi, obbediscono spesso all'interesse e cedono alla paura. Allora, come oggi, si mostravano per la maggior parte incapaci di pensieri elevati e il timore di Dio costituiva la loro unica virtù. Lucifero, disdegnando le cose vili, provava disprezzo per questa schiera di spiriti domestici che consumavano il tempo in giochi e feste. Agli spiriti audaci, e alle anime irrequiete, ardenti d'un amore selvaggio per la libertà, concedeva peraltro un'amicizia ch'essi gli restituivano sotto forma di adorazione. Costoro disertavano in massa la montagna del Signore e recavano al Serafino omaggi che l'altro pretendeva per sè soltanto.
Io appartenevo alle schiere delle Dominazioni ed il mio nome, Alaciel, non era privo di gloria. Per soddisfare il mio spirito tormentato da un'insaziabile sete di conoscenza, osservavo la natura delle cose, studiavo le proprietà delle pietre, dell'aria e dell'acqua. Ricercavo le leggi che governano la materia densa o sottile e dopo lunghe meditazioni mi resi conto che l'universo non si era affatto formato come il suo preteso creatore si sforzava di far credere: seppi che tutto esiste per volontà propria e non per il capriccio di Jahweh, che il mondo è l'autore di sè stesso e lo spirito è il proprio Dio. Disprezzai, allora, Jahweh per le sue imposture e l'odiai perchè si opponeva a tutto quanto vi è di buono: la libertà, la curiosità, il dubbio. Questi sentimenti mi avvicinarono al Serafino. Lo ammirai e lo amai, vissi nella sua luce. Quando giunse il momento di scegliere fra lui e l'Altro, mi allineai con il partito di Lucifero e, come sola ambizione, ebbi quella di servirlo e mutare la sua sorte. Non potendosi più evitare una guerra, la preparò con una vigilanza instancabile e con tutte le risorse d'una mente matematica. Trasformando i Troni e le Dominazioni in Ciclopi e Calibi, estrasse dalle montagne che circondavano il suo impero il ferro ch'egli preferiva all'oro e forgiò le armi nelle caverne del Cielo. Poi raccolse nelle pianure deserte del settentrione miriadi di spiriti e li armò, li istruì e li esercitò. Per quanto segretamente preparata, quest'impresa era troppo vasta perchè l'avversario non ne venisse presto a conoscenza. Si può supporre che l'avesse prevista e temuta da sempre, poichè aveva fatto della sua dimora una fortezza e dei suoi angeli una milizia e si dava egli stesso il nome di Dio degli Eserciti. Preparò le folgori. Più della metà dei figli del cielo gli restarono fedeli. Una folla d'anime e cuori devoti gli si strinse attorno. L'arcangelo Michele, che ignorava la paura, prese il comando di questo esercito animoso e paziente. Lucifero, dal canto suo, quand'ebbe raggiunto la massima potenza con il suo esercito, lo spinse con furia contro il nemico e promettendo ai propri angeli ricchezza e gloria, si lanciò alla loro testa verso il monte sulla cui vetta si erge il trono dell'Universo. Per tre giorni consecutivi incendiammo al nostro passaggio le pianure dell'etere. Alti su di noi, garrivano gli stendardi della rivolta. Il monte del Signore già si tingeva di rosa nel cielo orientale e il nostro capo ne valutava con gli occhi i bastioni scintillanti. Sotto le mura di zaffiro si stendevano le linee nemiche che, mentre marciavamo ricoperti di bronzo e di ferro, scintillavano d'oro e pietre preziose. I loro stendardi rossi e azzurri ondeggiavano al vento e lampi s'accendevano alle punte delle loro lance. Gli eserciti furono ben presto separati fra loro soltanto da un breve intervallo: una lingua di terra liscia e vuota, la cui vista faceva tremare i più coraggiosi al pensiero che laggiù, in una mischia sanguinosa, si sarebbero compiuti i destini.
Gli angeli, come sapete, non muoiono, ma quando il bronzo, il ferro, la punta del diamante o la spada infuocata lacerano il loro corpo etereo, soffrono d'un dolore più acuto di quello umano, perchè la loro carne è più delicata e se qualche organo essenziale viene distrutto, cadono inerti e si decompongono lentamente, dissolvendosi in nebulosa e galleggiando insensibili, dispersi per lungo tempo nell'etere freddo. Quando riprendono infine spirito e forma, non ritrovano l'intera memoria della vita passata. Perciò, com'è naturale, gli angeli temono la sofferenza e i più coraggiosi fra loro si turbano al pensiero di perdere la luce e il dolce ricordo. Se ciò non fosse, la razza angelica non conoscerebbe né la bellezza né la gloria del sacrificio. Coloro che combatterono nell'Empireo prima dell'inizio dei tempi, pro o contro il Dio degli Eserciti, se sarebbero abbandonati a finte battaglie, e non potrei dirvi con giusto orgoglio: "Figlioli c'ero anch'io»
...continua...
(Anatole France: La rivolta degli angeli, 1914. Cap. XVIII, pagg. da 103 a 109. Armando Curcio, Milano 1978)

sottofondo consigliato: As Tall Lions, "Acrobat" (2004)


sabato 14 agosto 2010

Superman, the return.


«Cronista, capocronista, inviato, caporedattore, vicedirettore: al Corriere Di Bella percorre tutti i gradini della professione. L'ultimo, la direzione, lo sale nel marzo '77 a Bologna, al Resto del Carlino di Attilio Monti, il "cavaliere nero"(per il petrolio e le simpatie politiche), e Giuseppe De Andrè, il padre del cantautore Fabrizio. Il tempo di appendere il soprabito, conoscere la redazione, prendere contatti con il sindaco Zangheri e i vari notabili, ed ecco gli scontri in cui muore Francesco Lorusso, i blindati nelle strade mandati dal ministro degli Interni Cossiga, le cariche della celere, gli indiani metropolitani, Bifo e Radio Alice, la torrida estate che porta al convegno sulla repressione di Guattari & C. in settembre. E' proprio in quei giorni, ricorda Di Bella nelle sue memorie, riprendono le trattative per il cambio della direzione in via Solferino. Il suo nome compare in tutte le ipotesi dei Rizzoli (patron Andrea e i figli Angelo jr. e Alberto), variamente abbinato a quelli di Ronchey, Sensini, Afeltra e Bettiza per la condirezione. Ma Di Bella tentenna, l'idea di tornare negli uffici di via Solferino in cui spadroneggia il comitato di redazione guidato dal durissimo Raffaele Fiengo non lo attira. A convincerlo, e c'è da credergli visto il fascino da incantatore di serpenti che l'uomo sprigiona già allora, è nientemeno che Silvio Berlusconi. Che all'amico e di lì a poco compagno di loggia P2 fa più o meno questo discorso: guarda, da azionista del Giornale mi farebbe più comodo che tu rifiutassi, perchè un Corriere spostato a sinistra lascerebbe ancora più spazio a Montanelli, ma se il Corriere fosse riportato su una linea meno radicale, beh, questo mi preme più dei miei personali interessi.
Detto, fatto. E Di Bella si decide al grande passo. Il primo giornale che firma è quello del 31 ottobre '77, dopo un voto di gradimento in cui la redazione si spacca: 95 a favore, 63 astenuti, 20 contro. Con la conquista del "soglio" che fu di Albertini, l'amicizia tra i due si rafforza, con Di Bella stregato dalla «profonda cultura» del futuro fratello massone Silvio («un suo splendido prologo all'Utopia di Tommaso Moro dell'editore Neri Pozza fu per me una rivelazione»). E così del Corriere Berlusconi diventa addirittura editorialista. Debutta nei giorni del sequestro Moro, con un dotto fondo economico intitolato "Un piano per l'industria che darà pochi frutti", piazzato in apertura di seconda pagina: non nella consueta forma della "tribuna aperta" utilizzata dal Corriere quando ospita interventi esterni, ma con i caratteri tipografici riservati agli editoriali particolarmente autorevoli. Ma altri articoli di Berlusconi escono nei mesi seguenti: "Pregiudizi e leggi inadatte frenano ancora l'edilizia" (25 giugno), "L'autarchia è un boomerang" (5 luglio), "Chi guida la politica creditizia?" (4 agosto). Nei mesi successivi il Cavaliere gode di un crescendo di considerazione, fino all'apoteosi del 14 settembre 1980, quando un altro fratello massone, Roberto Gervaso, lo intervista in terza pagina, un sublime faccia a faccia intitolato "Cosa farei se fossi senza casa... A colloquio con l'imprenditore Silvio Berlusconi". Sempre quell'anno, già in marzo, la Domenica del Corriere pensa bene di aprire proprio con un ritratto del futuro tycoon una serie di articoli dedicati ai numeri uno dell'Italia del nuovo decennio. E a fine 1980 arriveranno i giorni caldi del Mundialito, il torneo di calcio tra le nazionali vincitrici della Coppa del Mondo, organizzato dalla Fifa nell'Uruguay dei generali amici di Licio Gelli: quando Canale 5 a sorpresa ne acquisterà i diritti televisivi, Di Bella schiererà il suo giornale senza tentennamenti dalla parte dell'eversore del monopolio Rai.
L'amicizia, come l'amore, cresce se temprata dalle avversità comuni. Sentite questa dell'aprile dell'80, sempre dal libro di Di Bella:
Il mio amico Silvio Berlusconi con la sua mania di risparmiare sui minuti secondi ha voluto che salissi a Bologna non sulla mia auto ma sul suo jet. Sopra Linate al jet non è uscito bene il carrello, la ruota sinistra non scattava nella posizione giusta e rischiava di piegarsi all'atterraggio. Per tre ore abbiamo cercato invano un aeroporto che ci assicurasse trecento metri di schiumogeni per atterrare con qualche probabilità di non incendiarci. Ci hanno respinto Fiumicino, Ciampino, Linate e Malpensa. In centoventi minuti ho fatto in tempo a ricapitolare tutte le vicende della mia vita e a compiere qualche esame di coscienza. Berlusconi si è trasformato in hostess, assistente sociale, confessore e curatore d'anime. Inzuppa d'acqua i plaid di bordo per avvolgerli attorno al corpo al momento dell'impatto: rassicura passeggeri ed equipaggio, si rammarica solo che gli sta saltando tutto il programma serale di appuntamenti per Canale 5. Implacabile e sicuro com'è, se avesse gli occhi azzurri, sembrerebbe Gei Ar. Quando stiamo per far rotta su Ginevra, l'aeroporto militare di Cameri, impietosito da questi pellegrinaggi del cielo, derelitti e abbandonati da tutti, ci offre una pista con gli schiumogeni e ci consente di atterrare. Va tutto bene e il comandante Pagani ci porta bravamente in salvo: davanti alla scaletta troviamo pompieri in tuta di amianto, ufficiali efficientissimi e il cappellano militare con la stola officiante, già pronto per l'estrema unzione. Invidio Berlusconi per la sua glaciale imperturbabilità, anche se era piuttosto consistente il rischio di andare arrosto.
[...] ».
(Paolo Morando: "Dancing Days. 1978-1979, i due anni che hanno cambiato l'Italia", pgg. da 8 a 10. Laterza, Roma-Bari 2009)

sottofondo consigliato: Royal Scottish National Orchestra, Superman Themes



venerdì 13 agosto 2010

Human disposable.

«Seba è una giovane donna di ventidue anni, bella e piena di vita, ma mentre mi racconta la sua storia si ritira in se stessa, fuma nervosamente, trema, finchè non scoppia a piangere.

"Sono stata allevata da mia nonna in Mali. Quando ero ancora una ragazzina, venne da noi una donna che la mia famiglia conosceva e le chiese se poteva portarmi con sè a Parigi per badare ai suoi bambini. Disse a mia nonna che mi avrebbe mandata a scuola e che avrei imparato il francese. Quando arrivai a Parigi, però, non venni mandata a scuola, mi misero a lavorare tutto il giorno.
Da loro facevo tutto io: pulivo la casa, cucinavo, badavo ai bambini, lavavo e nutrivo il bebè. Ogni giorno cominciavo a lavorare prima delle sette del mattino e finivo verso le undici di sera; non avevo mai un giorno libero. La mia padrona non faceva nulla; dormiva fino a tardi, poi guardava la televisione o usciva.
Un giorno le dissi che volevo andare a scuola. Mi rispose che non mi aveva portata in Francia per mandarmi a scuola, ma perchè mi occupassi dei suoi bambini. Ero così stanca e demoralizzata. Avevo problemi ai denti; certe volte la guancia mi si gonfiava e sentivo un male terribile. Certe volte avevo mal di stomaco, ma dovevo lavorare anche quando ero malata. Certe volte, quando stavo male piangevo, ma la padrona mi sgridava.
Dormivo per terra in una delle camere da letto dei bambini; mangiavo quello che loro avanzavano. Non mi era permesso prendere cibo dal frigorifero come i bambini. Se lo facevo, lei mi picchiava. Mi picchiava spesso. Mi prendeva continuamente a botte. Mi batteva con la scopa, con gli strumenti di cucina, o mi frustava con i fili elettrici. certe volte sanguinavo; ho ancora i segni sul corpo.
Una volta nel 1992 arrivai in ritardo a prendere i bambini a scuola; la padrona e suo marito erano furiosi e mi cacciarono di casa. Non sapevo dove andare; non capivo niente e camminavo senza mèta. Dopo un po' il marito mi trovò e mi riportò a casa. Lì mi spogliarono nuda, mi legarono le mani dietro la schiena e cominciarono a frustarmi con un filo attaccato al bastone della scopa. Mi picchiavano tutti e due insieme. Sanguinavo molto e urlavo, ma loro continuavano a battermi. Poi lei mi strofinò del peperoncino sulle ferite e me ne infilò nella vagina. Persi conoscenza.
Più tardi uno dei bambini venne a slegarmi. Per parecchi giorni rimasi sdraiata sul pavimento dove loro mi avevano lasciata. Il dolore era terribile, ma nessuno si prese cura delle mie ferite. Quando fui in grado di stare in piedi, dovetti ricominciare a lavorare, ma da quella volta venni sempre chiusa a chiave nell'appartamento. Continuarono a picchiarmi."

Seba fu infine liberata quando una vicina, udito il rumore dei maltrattamenti e delle percosse, trovò il modo di parlarle. Vedendo le cicatrici e le ferite, la vicina chiamò la polizia e il Comitato francese contro la schiavitù moderna (Ccem), che portò il fatto in tribunale e prese Seba sotto la sua tutela. Gli esami medici confermarono che era stata torturata.
Oggi Seba è ben accudita e vive con una famiglia di volontari.
E' in terapia e sta imparando a leggere e a scrivere. Le ci vorranno anni prima di guarire completamente, ma è una giovane donna dotata di una forza straordinaria. Ciò che più mi ha sorpreso è stato vedere quanta strada debba ancora fare. Parlando con lei, mi sono accorto che sebbene abbia ventidue anni e sia dotata di una buona intelligenza, la sua comprensione del mondo è meno sviluppata di quella di un bambino di cinque anni.
Per esempio, finchè è rimasta in schiavitù, ha avuto una scarsa cognizione del tempo - per lei non esistevano nè le settimane, nè i mesi, nè gli anni. Per Seba esisteva solo l'eterno ciclo lavoro/sonno. Sapeva che c'erano giornate calde e giornate fredde, ma ignorava che le stagioni si succedessero secondo un ordine. Se mai aveva saputo la sua data di nascita, se l'era dimenticata e non sapeva quanti anni avesse. L'idea di "scegliere" la disorienta.
La sua nuova famiglia cerca di aiutarla a prendere delle decisioni, ma lei ancora non ci si raccapezza.
[...]
Anche se il suo fosse un caso isolato, sarebbe comunque scioccante, ma Seba non è che una delle forse tremila schiave domestiche che risiedono a Parigi. E questo tipo di schiavitù non si limita certo alla capitale francese. A Londra, New York, Zurigo, Los Angeles e ovunque nel mondo, ci sono bambini sottoposti alle brutalità della schiavitù domestica. E non sono che un piccolo contingente della schiavitù mondiale.»

(Kevin Bales: I nuovi schiavi, la merce umana nell'economia globale. Cap.1. La nuova schiavitù, pgg. 7-8-9. Feltrinelli, Milano 2000)


sottofondo consigliato: U2, In God's country, 1987




giovedì 12 agosto 2010

"Education of a Felon"

«Riappendendo il ricevitore, considerai la possibilità di darmi alla fuga. A mio avviso, è preferibile essere inseguito che catturato, ed era lampante che si era aperto un capitolo tutto nuovo nei miei rapporti con la Divisione delle Condizionali. Con grosse riserve, mi misi in macchina per raggiungere l'ufficio delle condizionali.
Era situato al centro della città, nell'edificio che al pianterreno ospitava il vecchio Million Dollar Theater. Una volta dentro, l'assistente addetta al pubblico doveva azionare un sistema di apertura della porta perchè si potesse riuscire. I bugigattoli usati come uffici si aprivano lungo un passaggio stretto: il posto evocava un luogo kafkiano. Si aprì una porta, comparve una testa, e una mano mi fece cenno di entrare.
- Personalmente, la rimanderei immediatamente in prigione, - fu la frase con cui mi accolse Harry Sanders. Era sulla trentina, grasso e sgradevole, le guance cascanti che gli straripavano dal collo della camicia. Vibravano quando muoveva la testa - Il mio superiore mi ha detto di aspettare.
Sono sicuro che il superiore in questione era convinto che fossi sempre sotto la protezione di Mrs. Hal Wallis. Non aveva intenzione di agire in maniera sconsiderata.
- Le dirò una cosa - proseguì Sanders. - Si troverà un altro tipo di lavoro.
- Che c'é di male a vendere automobili?
- Troppe tentazioni...troppe truffe ai clienti.
Volevo protestare, ma i giornali erano pieni di articoli a proposito di uno scandalo recente riguardante H.J. Caruso, uno dei più importanti concessionari della California del Sud. Alzai le spalle senza dire nulla.
- E questa Jaguar...Lei si sbarazzerà di questa vettura. Chi diavolo crede di essere? Uno in libertà vigilata al volante di una Jaguar!
Abbassai lo sguardo in segno di sottomissione, ma ciò non mi impedì di fantasticare quanto mi sarebbe piaciuto trattare con quel tizio a quattrocchi, da qualche altra parte, senza testimoni. Quando tornai all'automobile, mi accorsi che le mani mi tremavano. Volevo ammazzare Sanders, perchè sapevo, contrariamente alla credenza popolare, che l'omicidio è forse il crimine più facile da commettere, così come uscirne fuori puliti, se l'autore segue un copione semplice. Innanzitutto, non fidarsi di nessuno. E' un fardello troppo pesante da portare per gli altri, specie se questi altri si ritrovano in una situazione in cui possono scambiare l'informazione in loro possesso con la libertà.
Troppa gente si sente apparentemente obbligata a fidarsi di qualcuno, vuotando il sacco. L'assassinio è un fardello pesante per l'anima. Così non dovrebbe essere, ma lo é.
Il secondo passo consiste nel trovare un posto dove sorprendere la vittima da sola, un vicolo, un parcheggio, un garage sotterraneo.
Avanzate di qualche passo e sparate, preferibilmente tra gli occhi o dietro l'orecchio; anche il cuore può andare. Accertatevi che il colpo sia mortale e che nessuno potrà identificarvi. Sbarazzatevi dell'arma, in un posto dove non sarà mai possibile ritrovarla, e fate in modo che non si possa risalire a voi, nel caso in cui venga ritrovata. Dunque non ci sono né corpi del reato, né testimoni. Anche se la polizia è convinta della vostra colpevolezza, non esiste alcuna prova che potrà esibire dinnanzi a una giuria. Se vi interrigano, non mentite. Non dite nulla, tranne: - Voglio parlare con il mio avvocato - .
Ditelo agli sbirri che eseguono l'arresto; ditelo all'agente addetto alla procedura di ingresso in prigione; ditelo agli investigatori che vi interrogano; ditelo a tutti gli agenti che passano; ditelo all'infermiere che distribuisce i medicinali; ditelo al custode: - Voglio parlare con il mio avvocato.
Mi sentivo in grado di passarla liscia, ma non era nella mia natura uccidere a sangue freddo. Per legittima difesa, sì. Se qualcuno minacciava la mia vita, l'avrei eliminato senza tanti complimenti. Harry S. poteva forse rientrare in questa categoria, ma quel forse non era abbastanza perchè gli togliessi la vita, benché non valesse gran che. Avrei provato a resistere, ad accettare ciò che mi diceva, avrei provato a rabbonirlo. Era contrario alla mia natura, ma era l'unica possibilità che avevo di vincere.
Mi restavano nove mesi e dodici giorni per portare a termine la mia condizionale. Lo Stato mi aveva messo un cappio al collo quando avevo quattro anni affidandomi alla tutela del Tribunale dei Minori. Da allora ero stato in libertà vigilata o in regime di affidamento in prova al servizio sociale. Se ero capace di resistere, c'era la speranza che il mio responsabile fosse impegnato in altri casi che potevano attrarre la sua attenzione. Se fossi riuscito a tener duro per un anno, mi sarei scaricato da ogni obbligo. Sarei stato libero.»

(Edward Bunker, "Educazione di una canaglia", cap. Decimo: Nella merda fino al collo, pgg. 349-350-351. Einaudi, Torino 2002)


sottofondo consigliato: Wu-Tang Clan - Severe Punishment, 1997


mercoledì 11 agosto 2010

"Prologo 1123"

«I bambini vennero presto per assistere all'impiccagione.
Era ancora buio quando i primi tre o quattro uscirono furtivamente dai casolari, silenziosi come gatti nei loro stivali di feltro.
Uno strato di neve fresca copriva il paese come una nuova mano di colore e le loro orme furono le prime a intaccarne la superficie immacolata. Passarono tra le casupole di legno camminando sul fango ghiacciato delle viuzze e raggiunsero la piazza del mercato dove attendeva la forca.
I bambini disprezzavano tutto ciò che gli adulti tenevano in considerazione. Spregiavano la bellezza e schernivano la bontà. Ridevano fragorosamente alla vista di uno storpio e se vedevano un animale sofferente lo uccidevano a sassate. Si vantavano delle loro ferite e ostentavano le cicatrici con orgoglio, e riservavano il massimo rispetto alle mutilazioni: un ragazzetto privo di un dito poteva essere il loro re. Amavano la violenza; erano capaci di percorrere miglia e miglia per vedere il sangue, e non mancavano a un'impiccagione.
Uno di loro pisciò alla base del patibolo. Un altro salì i gradini, si portò i pollici alla gola e finse di accasciarsi torcendo la faccia nella macabra parodia del soffocamento; gli altri gettarono grida di ammirazione e due cani giunsero abbaiando sulla piazza. Un bambino piuttosto piccolo cominciò sfacciatamente a mangiare una mela, e uno dei più grandi gli diede un pugno sul naso e gli portò via il frutto. Per sfogare la rabbia, il più piccolo tirò un sasso a un cane che fuggì guaendo. Non c'era nient'altro da fare e perciò tutti si accovacciarono sul pavimento asciutto del portico della grande chiesa aspettando che succedesse qualcosa.»

(Tratto da "I pilastri della terra", K.Follett, 1989, Mondadori, Milano)



sottofondo consigliato: Kruder & Dorfmeister "Speechless"



mercoledì 4 agosto 2010

"Proibito, ma possibile"

Fonte: La Stampa

Continua la campagna "Disemo le cassate ché tanto i boccaloni se magneno tuto!" di GeneracionY il blogghe della donna a forma di spazzolino da water, Yoani Sanchèz.
Questa volta il post tocca argomenti veramente duri, quelle problematiche che affliggono solitamente i professionisti del Girapollici: la norma antitabacco che vige dal 2005.
Allora, dato che il tema trattato mi suscitava un interesse sproporzionato ma, ignorante come sono, non riuscivo a comprenderlo, ho deciso di dare un'occhiata ai commenti.
E qui ho scoperto che si discute per ore di argomenti ben più interessanti, state a vedere:
"brava yoani meno male che ci sei tu che ci illumini da cuba.
scritto da Pecore ";
"Spiegatemi cosa c'entrano Agnelli e la Fiat con i problemi di Cuba. Commenti a tono, per favore, o sono costretto a cancellare. scritto da Lupi";
"ma di quale reddito parli, pappagallo di mm, che a momenti a Cuba non hanno più nemmeno gli occhi per piangere, a Cuba funzionano bene le squadracce che picchiano ed intimidiscono quelli che criticano il regime, donne comprese, queste cose da noi ci sono già state e si chiamavano " camice nere del fascismo e della rivoluzione" (fascista!) A marià, te sei ridotto come la naftalina, a conservazione de li stracci vecchi. Pussa via, rientra nel cassonetto, o vuoi che te rimannamo a carci'colo? scritto da anonimo";
"Non sapevo che la libertà di questo blog è limitata.La famiglia non si tocca. Ma io non sono un servo. Non posso scrivere comparando l'Italia. Meglio che me ne sia zitto.Non voglio fare come quelli che dicono parolacce e pòi si nascondono. Se non mi è permesso di parlare,in questo Blog,cercherò altri blog più liberi! Pòi diter che a Cuba non esiste la libertà! HaHaHa! scritto da mariani maurizio";
"Abbiamo capito,Mariani è stato epurato,perche ha parlato della famiglia imperiale.Ma non erano i Castro i dittatori? scritto da anonimo ";
"All'anima della democrazia. scritto da bo!";
"Mariani è stato censurato dal democratico e civilissimo Lupi. Ma non erano i Castro che facevano i censori? Cuba deve far parlare la Sanchez e l'Italia? Fate parlare Mariani. Questa è solo ipocrisia!
scritto da un discepolo del Mariani".

Mi fermo qui per pudore.....
Ah, infine, annota l'eroina (leggi diacetilmorfina o alcaloide morfina...) di essere preoccupata per Juan Juan Almeida che si sta recando a pretendere il suo permesso di uscita.
Ovviamente di Gerardo Hernandez, incarcerato ingiustamente da 11 anni negli Usa, nemmeno una parola.